Dal 1914 fino al 1919 la società americana fu sconvolta da un primo ciclo di lotte operaie che portò, nel 1918, alla nascita del «National War Labor Board» (Nwlb), un’agenzia federale preposta alla soluzione dei conflitti del lavoro. A fronte delle rivendicazioni avanzate con le armi dello sciopero nell’arco di un quinquennio, e proprio mentre gli Stati Uniti erano impegnati, a partire dal 1917, nella Prima guerra mondiale, la classe operaia americana, con l’avallo del Nwlb, ottenne per sé: sindacati, contrattazioni collettive, salario minimo garantito, parità di trattamento economico per le donne. Finita la guerra, a queste conquiste non seguì più nulla, se non i roaring twenties, i «ruggenti anni venti», che si conclusero con il crollo di Wall Street nel 1929 e l’inizio della Grande Depressione.
A una situazione storico-politica del genere come reagì la sociologia americana? Possiamo iniziare a farcene un’idea grazie alla pubblicazione di Diversità e selezione nel mutamento socioculturale. Una sociologia darwiniana (a cura di D. Maddaloni, Ipermedium, pp. 158, euro 14) di Albert G. Keller, professore di Sociologia a Yale dal 1909 al 1942, successore del suo noto maestro William G. Sumner. Il libro che viene presentato per la prima volta al lettore italiano con questo titolo, in realtà è una sorta di antologia che il curatore ha ricavato dal testo kelleriano L’evoluzione delle società, uscito in prima edizione nel 1915 e poi riedito in forma rivista e accresciuta nel 1931.
Ci sono tre motivi per cui diciamo che questo testo ha inscritte in sé le cicatrici del ciclo di lotte portate avanti dalla classe operaia dal 1914 al 1919, fino alla tragica implosione del 1929. In primo luogo, per le date di pubblicazione (1915 e 1931); poi, per il modo in cui l’autore pensa il conflitto sociale; infine, per il semplice fatto che alla concretezza storica della lotta di classe che Keller ha costantemente di fronte a sé, non si fa mai esplicito riferimento, indice questo di una trasposizione della battaglia dal piano concreto della storia a quello astratto della teoria.
Il quadro interpretativo che proponiamo di Diversità e selezione è molto diverso da quello in cui lo colloca il suo curatore, il quale ha a cuore che il testo venga recepito e discusso nelle sue evidenze empiriche più ovvie, cioè: da un punto di vista epistemologico, nel solco di quella tradizione del pensiero sociale che si rifà al paradigma evoluzionistico di matrice darwiniana (da Herbert Spencer a Sumner, fino agli esiti antropologici di un contemporaneo come Marvin Harris) e, da un punto di vista politico, rispetto alla sua dimensione più ambigua e controversa, ossia, la necessità di una «selezione razionale» della specie umana, sarebbe a dire, l’eugenetica (nella parte finale del testo il sociologo americano sembra fare sue le teorie di fondatori e sostenitori: Francis Galton e Wilhelm Schallmayer).
Dal nostro punto di vista, però, è solo in funzione della storia e della teoria del movimento operaio che la sociologia generale fa precipitare i suoi più riposti significati politici. Senza riportarlo al ciclo di lotte operaie americane (1914-1929) Diversità e selezione rimane solamente un prezioso documento di storia del pensiero sociologico, al contrario, una volta messo nella loro prospettiva, si illumina di una potenza inedita.
È solo perché ha visto gli operai lottare e ottenere ciò che volevano in un momento così difficile come quello rappresentato dalla Prima guerra mondiale, e conquistarlo per sé come classe mentre il Capitale combatteva in quanto Nazione, che Keller può forgiarsi un’immagine del conflitto sociale di questa portata: «Tutti questi gruppi lottano per una posizione, nella struttura societaria, che consenta ad essi di perseguire e sostenere le proprie specifiche iniziativa in materia economica e sociale, che possono ottenere riconoscimento e guadagnare influenza o al contrario essere eliminate ancor prima di prendere forma. In tutti questi casi è evidente che la selezione è all’opera, e cioè la lotta tra le classi, nella misura in cui verte sul conseguimento di una posizione di influenza da parte di questo o di quel gruppo, si traduce in una posizione di vantaggio per uno o per l’altro tipo di regole sociali».
Quando si arriva formulare un’immagine del genere poca conta che l’autore storicamente si sia schierato con i repubblicani e abbia avversato il New Deal di Roosevelt (così è andata per Keller, come ci ricorda il curatore), a valere è la concezione di una società che, abbandonate le ipocrisie piccolo borghesi di pacifica convivenza e di felice autorealizzazione personale, si scopre animata ovunque dallo scontro: «Considerata da questo punto di vista, una società complessa è un’arena ribollente di conflitti, industriali, commerciali, politici, religiosi, morali».
Mentre lo scienziato sociale non faticherà a riconoscere in argomentazioni di questo tipo una sociologia del potere weberiana, il dirigente politico, molto più concretamente, vedrà in esse la potenza di agire e lo spazio di manovra tipico di ogni soggetto rivoluzionario. E riprenderà il lavoro dove l’ha lasciato la classe operaia americana.