In un saggio apparso meno di due mesi fa su The New Statesman, Bernardine Evaristo, ricordando che i bianchi non sono numericamente prevalenti sul pianeta, sottolineava come i «romanzi della maggioranza globale» – ovvero le narrazioni scritte da autrici e autori di colore – siano quasi esclusivamente interpretati dalla critica bianca come speculazioni identitarie, indipendentemente dal genere o dal tema trattato. «Quando quei pochi romanzi … sono celebrati», concludeva Evaristo, «c’è chi dice che è per political correctness e non per la qualità oggettiva dei lavori – lavori che è ben poco probabile si degnino di leggere». Viene da chiedersi se l’allusione di Evaristo sia ai membri della giuria che, lo scorso anno, assegnò il Man Booker Prize al suo romanzo, Ragazza, donna, altro (BigSur, traduzione di Martina Testa, pp. 521, € 20,00), ex-aequo con I testamenti di Margaret Atwood.

Senza dubbio «totalmente inclusivo», come il romanzo ideale sul quale Evaristo concludeva il saggio per The New Statesman, Ragazza, donna, altro ha per protagoniste figure rare nella narrativa britannica, «assenti o, specialmente in un passato non tanto lontano, presentate come creature senza cervello, oggetti da sbattere, figurine di carta da ritagliare, stereotipi queer o criminali». Non un’opera mainstream, piuttosto un tentativo audace e ambizioso di «decolonizzare il canone», rendendo ragione dell’eterogeneità del mondo femminile.

Metamorfico e metaforico
Convinta che il romanzo sia «una creatura metamorfica e metaforica che si insinua nei cuori e nelle menti… per intrattenere, educare, provocare, illuminare», Bernardine Evaristo sfida il pregiudizio che vuole i romanzi «della maggioranza globale» concentrati esclusivamente su problemi identitari, proponendo la narrazione corale delle storie di dodici donne di colore, in un linguaggio disinvolto e colloquiale, che si struttura in periodi i cui a capo sostituiscono la punteggiatura, le frasi si accumulano invece di organizzarsi in paragrafi, e le maiuscole sono pressoché assenti.

In effetti, chi legge è stupito, in primo luogo, dalla particolarità della disposizione grafica del testo, che già di per sé suggerisce la volontà di costruire un contro-romanzo, una narrativa «altra» in opposizione ai dettami del canone occidentale, sin dall’impaginazione. Si è parlato di prosa poetica, di forma ibrida in cui versi lunghi al modo di Whitman e Ginsberg si alternano ad altri brevissimi, per attirare l’attenzione su una particolare parola, su un pensiero o su un’idea: Evaristo preferisce piuttosto definire il suo stile «fusion fiction», alludendo con «fusion» alla «fusione» tra prosa e verso libero, discorso diretto e indiretto, frasi che scivolano le une nelle altre senza soluzione di continuità, in assenza di segni di interpunzione che li delimitino.

Non si tratta di un’operazione di facciata. La disposizione delle parole sulla pagina corrisponde al ritmo delle vite delle protagoniste, all’intenzione di enfatizzare situazioni e personaggi, tutte e tutti da cogliersi nella loro unicità, e al tempo stesso tutte e tutti espressi da una voce narrante particolarissima, attraverso le diverse sfumature di un discorso indiretto libero in cui si insinuano, fino, a tratti, a sostanziarlo, riflessioni, domande, osservazioni, flash back: alla terza, ma anche alla prima e alla seconda persona singolare.

Così, il libero fluire delle frasi (o dei versi?) traduce l’urgenza del racconto, il bisogno di esporre non solo i fatti sensazionali, ma anche e soprattutto la quotidianità delle dodici protagoniste, poiché è proprio nel giorno dopo giorno che questioni di razzismo, di identità di genere, di pari opportunità, si manifestano in tutta la loro urgenza. In questo senso, mentre ogni capitolo, dedicato a una donna diversa, potrebbe quasi leggersi come una short story a se stante, mostrando un ennesimo rifiuto, da parte dell’autrice, di adeguarsi a generi letterari canonici, il ritorno degli stessi personaggi da un capitolo all’altro, in posizione comprimaria, sullo sfondo o anche solo in qualche cameo narrativo, permette il confronto con punti di vista spesso antitetici su medesime situazioni che, colte attraverso molteplici prospettive, si offrono a differenti interpretazioni.

La sera della prima
Il pretesto narrativo che tiene insieme i dodici racconti è la prima rappresentazione dello spettacolo di Amma, regista e drammaturga lesbica di colore, finalmente approdata al National Theatre, dopo decenni di gavetta nei circuiti off femministi. Alla sera della prima, si ritrovano le donne della sua vita – Yazz, la figlia diciannovenne, «un’umanista cazzutissima che ha per madre una teatrante lesbica e per padre un “intellettuale” gay»; Dominique, l’organizzatrice della compagnia teatrale, reduce da una relazione, trasformatasi in un vero e proprio sequestro, con una psicotica profetessa di «donnismo» americana; Shirley, un’insegnante il cui idealismo si è trasformato in cinismo, dopo anni di servizio in una scuola pubblica di periferia. Altri personaggi, cui sono dedicati capitoli del libro, si incontrano allo spettacolo, per caso, e tra questi Carole, un’ex allieva di Shirley che, partendo da origini proletarie, ha fatto grazie al suo aiuto una prodigiosa carriera nel mondo della finanza, ma che la ricorda con astio e non l’ha mai ringraziata; e Megan/Morgan, l’«Altro» del titolo, influencer non binaria con un milione di follower.

Le altre protagoniste del libro sono tutte, in qualche modo, legate tra loro: Bummi, una donna delle pulizie che ha imparato a sue spese come una «laurea di prima classe presa in un paese del Terzo Mondo» non abbia alcun valore nel Regno Unito, è la madre di Carole; Winsome, moglie insoddisfatta che si lascia andare a una relazione erotica con il proprio genero, è la madre di Shirley; Penelope, la ricca signora bianca che, nell’epilogo, giunta alle soglie degli ottant’anni, scoprirà di essere inglese solo per il 17%, è la padrona della casa presso cui lavorava Bummi; Hattie è la nonna di Megan/Morgan e Grace è sua madre.

Il romanzo spazia così da Londra alla Cornovaglia, da Newcastle al Northumberland, spingendosi fino alla California, alle Barbados, alla Nigeria, per approdare al confine scozzese, estendendosi dal 1895 ai giorni nostri, in un affresco polifonico da cui emerge una buona rappresentazione narrativa di quella «storia esterna che sta dentro la storia degli Inglesi», quella storia «altra» che Stuart Hall ci ha insegnato a riconoscere nelle versioni ufficiali, poiché «Non c’è storia inglese senza quell’altra storia».

Nato «dal silenzio di tutti coloro per cui potrebbe parlare e contro il baccano di tutti coloro che potrebbero opporvisi», il lavoro di Bernardine Evaristo allarga il proprio orizzonte di indagine e si propone come manifesto di una Britishness, ibrida, fluida, eterogenea: «Megan era in parte etiope, in parte afroamericana, in parte del Malawi e in parte inglese / che a suddividerla così suonava strano, perché di base era semplicemente un essere umano tutto intero».