Ancora alla Viennale. Terminiamo la giornata ideale iniziata, lo ricordiamo, con un «huit clos» di Jacques Doillon, e proseguita con un episodio del feuilleton Tih-Minh di Feuillade e un film del cineasta strutturalista americano James Benning.

Prima di cena, qualcuno propone Mouton, un’opera prima di due registi francesi: Marianne Pistone e Gilles Delroo. È una vera scoperta. Un film libero, che si concede il lusso di sperimentare varie soluzioni tutte ardite: brutali ellissi, cambi di ritmo, di prospettiva, tutte piuttosto riuscite. Nella prima parte seguiamo Mouton, la pecora. Un giovanotto a cui i servizi sociali permettono di «disconoscere» la madre alcolista e che comincia a lavorare in un ristorante. Il film l’osserva con benevolo naturalismo, che dal personaggio si allarga al paesaggio della Normandia popolare e proletaria, al rapporto tra la terra e il mare. Fin quando, durante una festa popolare un incidente taglia un braccio alla nostra pecora e il film in due, dando improvvisamente la voce ad una ragazza che ha avuto una breve storia con Mouton, e che dopo l’incidente si sposa e lo perde di vista.

Uscendo, la voglia non manca di infilarsi a parlare di Mouton davanti ad una cotoletta viennese. Ma al Filmmuseum passa l’ultimo film di Jerry Lewis, Smosgarsbord, (Qua la mano Piccihiatello) quello a cui Godard rende omaggio in Soigne ta droite.

Lo spettacolo è introdotto dal critico americano Chris Fujiwara. Addio wiener schniztel, un hot dog preso al volo ad uno dei tanti chioschi e via nella saletta dove Fujiwara sta iniziando la sua introduzione, che riporto tra virgolette anche se si tratta di un ricordo, spero fedele, comunque insufficiente su un punto essenziale, difficile da esprimere: l’intimità degli americani con il loro «Jerry», a cui la Viennale ha dedicato la magnifica retrospettiva di questa edizione, geniale rapsodo, inventore di una narrazione nazionale talmente popolare da aver plasmato una generazione di americani, i quali ancora oggi, per le vie di Vienna, dopo qualche bicchiere, presi dalla fame, cantano in coro il motivetto morale di Artists & Models: «Although you’re stuck with beans, there’s money in your jeans, when you pretend…».

Ci dice Fujiwara: «Quello che state per vedere è un film straordinario. L’ultimo che Jerry Lewis ha girato, fino ad ora. Negli Stati uniti è stato distribuito nel 1983 con il titolo: Cracking Up. Ma il titolo originale è Smosgarsbord. Il 1983 è un anno cruciale per Jerry. Esce King of Commedy (Re per una notte) di Martin Scorsese. Molti detrattori sembrano scoprire che Jerry è un attore serio, degno di rispetto. Da poco era uscita la sua autobiografia: Jerry Lewis in Person (New York, 1982), nella quale rivelava di aver tentato il suicidio. Quello del suicidio è un tema centrale di Smosgarsbord e direttamente o indirettamente di molti, se non di tutti, i quindici film che Jerry Lewis ha diretto.

Tutti hanno a che vedere con l’autodistruzione o con la scomparsa del personaggio. Il paradosso è che Jerry Lewis moltiplica la propria presenza sia davanti che dietro la macchina da presa. Eppure, il tema di fondo è la dissoluzione di questa presenza e lo sradicamento del sé. Un gioco affascinanante di spinte emerge da queste due opposte pulsioni che Smosgarsbord mette in scena esacerbandone il conflitto all’inverosimile. Credo che sia un film molto divertente.

Non si dovrebbe mai dirlo prima di un film, perché poi non ride nessuno. In realtà non è un film molto divertente… [Risate in sala, ndr]. No, credo che lo sia, spero che lo troviate così anche voi. Dal punto di vista formale, Jerry ritorna ad un modo di girare messo tra parentesi in Hardly Working, questo prodotto con dei mezzi relativamente poveri, esteticamente molto bello ma diverso dalla qualità hollywodiana dei film girati in studi di posa ai quali Jerry Lewis ci ha abituato nei suoi film degli anni 1970 e che in Smosgarsbord Lewis ritrova, con un risultato veramente eccezionale. Quindi, vi auguro una buona visione con Smosgarsbord»