A  Mario Martone tocca il privilegio, assai raro da noi, di riuscire a far coincidere gli incarichi di lavoro con un suo percorso personale attraverso aspetti e contraddizioni di problemi di generale interesse. Non sarà stata certo solo l’offerta della Scala per la regia dell’inaugurazione della stagione, a permettergli di porre una sorta di personale sigillo artistico (e fortemente politico) sulla «rivoluzione», e ancor più sul suo tradimento. Senza rigidità ideologiche o linguistiche, ma anche sul palcoscenico operistico arriva così la sua analisi amara e coinvolgente su quel tema. Dopo che era stata centrale sullo schermo di Noi credevamo (quasi un nostro Nascita di una nazione), e poi in teatro con la lancinante Morte di Danton da Büchner, ora tutto prende fiato e sentimento alla Scala con il verismo poetico di Umberto Giordano per Andrea Chénier.

Tre opere diversissime e disseminate lungo un secolo, che Martone riesce invece a far parlare tra di loro con calore e con spietata lucidità, tutte e tre letteralmente «straordinarie« non solo per la compiutezza e la ricchezza formale di ognuna, ma per il pensiero e le emozioni che le attraversa e le vivifica tutte e tre. Chenier è anzi prima di tutto una storia d’amore, per quanto ambientata nel nascere e poi nel degenerare della rivoluzione francese, capace di entusiasmare nonostante il suo «cuore» crudele, un pubblico molto ampio e differenziato, come dicono sia avvenuto domenica scorsa nell’anteprima riservata dalla Scala agli studenti.

Non solo la musica di Umberto Giordano, ma lo stesso testo di Luigi Illica, non un semplice «libretto» ma un testo che oggi diremmo politicamente «militante», sembra prendere il volo nel suo svilupparsi , fino a un finale davvero gonfio di commozione. Martone ha rispettato e valorizzato quel distendersi del racconto dalla festa iniziale nella tenuta di nobili di provincia (con tanto di danza di villanelle coreografate da Daniele Schiavone), che viene interrotta dalla servitù in rivolta sulle notizie provenienti da Parigi.

Per passare in un fluido racconto alla Parigi fremente e sanguinosa dell’ebbrezza rivoluzionaria. Margherita Palli ha costruito per questo succedersi tumultuoso della «storia» una scena circolare, cui basta il respiro di una rotazione per scoprire l’altra faccia degli avvenimenti. L’amata che insegue l’amante poeta Chénier, intellettuale in rivolta, ma perseguitato dall’antico servo geloso e ora leader rivoluzionario. Mentre la pedana rotante passa da specchi deformanti che pure restituiscono la verità, a tribuna di cori rivoluzionari sui quali echeggia la Carmagnole, se non qualche nota della Marsigliese.

Ed è sempre quel meccanismo rotante a portare l’altro volto irrigidito della rivoluzione, il tribunale che col suo giudizio «politico» manda alla ghigliottina gli antichi amanti finalmente uniti sulla carretta dei condannati senza ritorno. Banale sarebbe usare per Martone l’aggettivo «cinematografico» (anche se le belle luci sono di Pasquale Mari). Certo è che grazie alla potenza della musica scandita dalla bacchetta di Chailly, più di altre volte una condizione sociale ed esistenziale come quella che ci troviamo a vivere,e che l’opera dispiega, risuona e colpisce davvero come il più efficace, e monstre, dei cinemascope.