Sono ritenuta, come sanno molti dei vecchi compagni, responsabile della venuta a Roma, sessant’anni fa, di Achille Occhetto, primo passaggio determinante della sua carriera politica: a partire dalla segreteria nazionale della Fgci fino a… E qui già mi fermo, perché non riuscirei ad essere serena, neppure dopo tanti anni, nel definire come è andata a finire. Lui stesso, nel libro autobiografico uscito vent’anni fa, ne scrive riferendo delle molte lettere inviategli allora per sollecitarlo ad accettare l’ingresso nella segreteria nazionale della Fgci che gli veniva offerto in un momento in cui la situazione che ambedue consideravamo assai «grigia» stava sbloccandosi.

«Ci sono oggi forze nuove, gente vergine da conquistare e formare, molte possibilità di movimento», racconto io per convincere Achel (a lungo non abbiamo neppure saputo che il suo vero nome era Achille). E come questa parecchie altre missive che aveva conservato perché – spiega nel libro – «a Luciana mi legai con una di quelle amicizie che, nei primi tempi del mio apprendistato, hanno fatto di alcune donne (l’altra citata è Lia Cigarini, prima segretaria donna di una Fcgi importante come quella di Milano, poi figura fondante del femminismo) uno dei momenti essenziali della mia formazione. E fra l’inizio del 1957 alla fine del 1960, siamo stati legati da una fitta relazione epistolare» (dovete tener conto che allora il telefono era usato solo per messaggi urgenti e perciò ognuno di noi conserva archivi con centinaia di lettere).

CONSAPEVOLE, nel libro tuttavia aggiunge: «Mi par di sentire gli improperi verso la povera Castellina di quanti, alla lettura di questa preghiera, penseranno: ma doveva lasciarlo andare alla malora, lì dove era!». (A Milano, in partenza per l’Università di Heidelberg a studiare l’alienazione in Hegel e Marx).

Ho ricordato queste memorie perché le ho tutt’ora assai presenti: quelli di cui parlo sono stati infatti gli anni in cui cominciò a svilupparsi nel partito un confronto politico intenso, di cui la Fgci fu parte molto attiva, tanto è vero che tutt’ora, nonostante le rotture profonde che si sono poi via via verificate, continuiamo, di tanto in tanto, a promuovere larghi incontri Amarcord. Mai, comunque, mi è capitato di incontrarvi Occhetto, ed è dunque con sorpresa che ho sentito la sua voce al telefono che mi comunicava l’uscita di un suo libro – Perché non basta dirsi democratici (Guerini e Associati, pp. 200, euro 18,50) – che avrebbe avuto piacere leggessi perché c’erano, forse, cose su cui potevamo tornare a concordare. E, ha ripetuto polemicamente, provano cosa sia essere davvero di sinistra. (Una, la cito subito, perché è quella più certa: che «la sinistra di lotta aveva conquistato molto di più di quella di governo»; anche se, per la verità, quella sua trovata della Bolognina era finalizzata proprio dal desiderio di accedere al governo!).

IL VOLUME ha più di 200 pagine che toccano molti temi che certo non potrò tutti affrontare. Ha il pregio di partire dal quesito: «quali sono le motivazioni di fondo del socialismo», e di indicare subito la risposta appropriata – «ricomporre uguaglianza e libertà» – un obbiettivo per il quale si è pensato si potesse affidare un ruolo redistributivo allo Stato che si è tuttavia rivelato incapace di esercitarlo, o di darne una versione drammaticamente coatta.

La parte più interessante del lavoro di Occhetto è quella – centrale per tutti noi – di come vadano ridefiniti i concetti cardine del marxismo, ma anche della pratica del movimento operaio, in rapporto a una transizione ecologica accompagnata da una innovazione tecnologica assai più rapida di quanto avremmo mai pensato. A fronte di possibili catastrofiche conseguenze, non potrebbe invece finalmente aprirsi la strada al marxiano discorso, sempre marginalizzato, sul superamento della natura di merce del lavoro? Di liberazione nel lavoro, tema oggi molto discusso teoricamente, mentre però nel concreto è in atto un processo inverso: la sua rischiavizzazione?

È, QUESTO, UN CAMPO di riflessione ormai affollato e per nulla omogeneo, un terreno molto scivoloso perché nel prendere giustamente atto del peso che ha ormai acquisito il potere degli algoritmi si è in effetti indotti a chiedersi se la «vecchia contraddizione fra capitale e lavoro non vada – come scrive Occhetto – ormai vista come contraddizione più complessa», come, da un lato «energia complessiva del lavoro materiale e intellettuale incorporato nella scienza e nella tecnica, dall’altro appropriazione privatistica dell’insieme dei frutti dell’intelligenza complessiva». Qualcosa che però ridurrebbe la natura di merce di un lavoro che non si presenterebbe più come fattore esterno, uno dei tanti fattori produttivi di cui si contratta il prezzo, giacché sarebbe invece divenuto parte costitutiva dell’impresa stessa.

Non c’è dubbio che i mutamenti che si stanno verificando imporranno profondi cambiamenti – scrive l’autore – perché muta il modo di presentarsi del capitale, dell’imprenditore e della sua impresa, richiedendo a chi contratta – il sindacato – una conoscenza ben più profonda dei meccanismi della produzione e delle strategie di mercato. Qualcosa che renderebbe obsoleto l’approccio conflittuale della tradizione sindacale italiana, e la necessità di avvicinarsi piuttosto a quello cogestionale della Mittelbestimmum tedesca.

È COMUNQUE UN FATTO che le novità della transizione imposta dal mutamento climatico così come dalle nuove tecnologie impongono ripensamenti generali della cui urgenza ci si rende conto appena ci si mette a discutere. E tuttavia è chiaro che su questo nuovo complesso terreno ci si può stare come cogestore o come aveva tentato di starci negli arcaici anni Settanta il Consiglio di fabbrica.

La vera novità – ormai neppure più tanto nuova, perché si tratta di un processo che ha avuto inizio già a partire dal vero inizio della lunga crisi del capitalismo, quella degli anni Settanta – è quella che i riformisti sembrano non voler vedere: che siamo arrivati a un punto in cui la perenne capacità della produzione industriale di espandersi è invece risultata impossibile. La questione ecologica non cambia infatti solo il clima ma il nocciolo del capitalismo, il modo di funzionare della nostra civiltà. Il ridursi progressivo dell’espansione mette infatti anche fine alle fortune del riformismo che proprio in quello sviluppo aveva trovato i margini per le proprie fortune, il compromesso sociale.

Una rivoluzione, potremmo dire, oggi non è più una scelta, è ineluttabile. E dunque potremmo dire che quanto ha storicamente diviso i comunisti dai socialdemocratici – i primi in favore, gli altri contro – non è più una opzione, è una via obbligata per tutti. Non affrontare la sfida significa subire un fatale imbarbarimento del mondo, esito fatale per tutti se si rinuncia a battersi per una trasformazione ben più radicale di quella ipotizzata il secolo scorso. Occhetto la chiama «culturale» e, se la parola serve a dire che richiede la conquista di un’egemonia, va bene, certo no se l’aggettivo viene invece usato, come spesso accade, per dire che è un po’ meno profonda di quelle che mettono in discussione il nocciolo del sistema capitalista.

MA ALLORA, senza voler tornare a discutere della rottura drammatica provocata dallo scioglimento del Pci, e restando alla problematica che ci si propone oggi, non risulta ancor più di ieri la necessità inderogabile della soggettività politica, capace di orientare l’Aufhebung – la rimozione delle cose presenti – richiamata più volte da Occhetto che non solo non può riuscire, ma ci può anzi rendere solo vittime. Il Pci, con tutti i suoi difetti, era il patrimonio con il quale l’impresa poteva esser tentata, dissiparlo è stato fatale. Ma anche peggio è stato opporsi al tentativo di rinnovare il Pci proprio in rapporto ai nuovi aspetti che andava assumendo la modernità capitalista, già allora visibili anche se non ancora tutti dispiegati. È su questo che si è verificato il vero scontro nel Pci a partire dal Sessantotto non sul «nome della cosa».