E’ «un paese parzialmente sospeso nel tempo» quello che racconta Michele Gurrieri con le sue foto che traducono in immagini scoperta, speranza, sogno ma anche paura. Fiorentino d’origine e parigino d’adozione, Gurrieri vive infatti da tempo nella capitale francese dove lavora come direttore della fotografia per fiction e documentari, spostandosi però sovente nelle terre della ex-Jugoslavia: ha partecipato a una ricerca visiva sulla musica dei Rom del Kosovo e sta dirigendo The King, un documentario sulle bande di ottoni rom della Macedonia. È perciò il desiderio, anzi la necessità interiore di tornare a guardare in maniera diversa al Paese da cui manca stabilmente da più di un decennio, ad aver spinto il giovane fotografo, classe 1982, a intraprendere un itinerario alla riscoperta della «sua» Italia.
Un viaggio, compiuto in compagnia di una reflex, ora riunito in Ogni mare ha un’altra riva (Edizioni Clichy, pp. 318, e 30,00, postfazione di Alessandro Dal Lago), dove in un luminoso bianco e nero si alternano scatti di vita quotidiana, volutamente tagliati, almeno in apparenza, sul ritmo della cronaca, ad altri in cui lo sguardo del fotografo plasma la realtà, restituendola come frammento e portato di un intero immaginario fatto di emozioni, promesse, richieste. Si susseguono in rapida sequenza le città, i volti, le bandiere, il mare e le ombre di angoli d’Italia chiamati a rappresentare un insieme significante o anche, e spesso, altrettanti quesiti posti all’identità e alla stessa «tempra morale» del Paese.
«L’Italia rimasta fuoricampo per tanti anni e che alla fine decido di inquadrare di nuovo», spiega Gurreri, è al tempo stesso «casa» nel senso più intimo del termine e volto oscuro nel quale si ha il timore di potersi specchiare. Il Paese «inventore e avanguardia di tutti i fascismi e nello stesso tempo medaglia d’oro della Resistenza», racconta ancora il fotografo: il quale punta a più riprese il proprio obiettivo verso una minaccia che anche quando sposa l’iconografia del passato non potrebbe essere più concreta e prossima. Dalle celebrazioni nostalgiche che vanno in scena a Predappio si passa così al cuore leghista della Brianza di Salvini. Ma il vero punto d’arrivo sono i morti senza volto di Lampedusa, i barconi spiaggiati che narrano dei protagonisti di un esodo attraverso il Mediterraneo, accolti sì dalla solidarietà dei pescatori in loco, ma soprattutto da una marea montante di odio e risentimento che ne fanno l’espiazione di ogni malessere e delusione.
È questa barbarie quotidiana, che non smette di interrogare la civiltà e la memoria nazionali, che Michele Gurreri vuole sfidare in campo aperto con le sue immagini minute, delicate, talvolta complici, altre volte consapevolmente urticanti. Nulla è del resto agito a caso nella sua opera. «La citazione di Cesare Pavese che dà il titolo al libro -– spiega –, letta su una targa del cimitero di Lampedusa, è dedicata a tutti i viaggiatori e in quel caso è dedicata dagli abitanti dell’isola ai migranti non identificati, morti nel canale di Sicilia e sepolti in una fossa comune. Mi ha colpito non solo il contesto nel quale l’ho letta ma soprattutto per quello che dice sul viaggio, sull’altrove e sull’altro da sé. Mi sembrava appropriata a definire la questione dello sguardo, che è poi il nodo centrale di quello che ho cercato di fare: avere occhi fiduciosi, curiosi, cercare di mettermi al posto dell’altro, del soggetto, non solo quando sentivo affinità con coloro che fotografavo ma anche davanti a chi mi faceva paura».
Lungo questo doppio binario, nutrito da una parziale internità a quanto osservato come da un altrettanto significativo sentimento di spaesamento (una compiaciuta, mai ridondante flânerie dello sguardo), le foto di Ogni mare ha un’altra riva costruiscono così una narrazione plurale dove lo sbigottimento cede il passo alla sorpresa e, via via, e quando possibile, al dialogo e all’incontro. Sono i volti sorridenti degli anziani della Casa Verdi di Milano, della folla in festa durante la processione dei femminielli al Santuario di Montevergine, vicino ad Avellino. O, ancora, la Titubanda che percorre le strade della periferia romana di Casal Bertone o la Mayday lungo quelle del centro di Milano, nella processione laica intorno all’effigie di San Precario.