Un libro sul Meridione d’Italia come colonia. Un libro che ripropone una questione storica e politica irrisolta, quella del tipo di rapporto che c’è stato dall’Unità d’Italia in avanti tra Nord e Sud. Ma anche un volume sulla necessità di soluzioni e proposte politiche autonome, interne, emerse localmente dal basso e non importate o imposte dall’esterno e dall’alto.

SONO QUESTI i contenuti portanti di Il Mezzogiorno e le sue classi, Il proletariato esterno di Nicola Zitara, ristampato da Jaca Book (pp. 196, euro 20), 46 anni dopo la prima edizione e 41 dopo la seconda edizione ampliata. L’autore, uno storico non accademico e giornalista, fu co-direttore della rivista «Quaderni calabresi», sempre attivo, anche contraddittoriamente, nel cercare di costruire un punto di vista autonomo meridionale sulla realtà di questa parte d’Italia. Convinto dei limiti del processo di unificazione e dei tanti effetti negativi che esso aveva avuto, riducendo la popolazione del Sud alla condizione di emigranti, costretti ad andare via, o briganti, obbligati alla ribellione senza prospettive.

I modelli di organizzazione politica imposti nel Meridione sono tutti di derivazione esterna, compresi quelli della lotta per la liberazione influenzati e guidati dai partiti e sindacati operai, estranei alle masse popolari locali, in un contesto in cui i partiti nazionali sono visti come sovrapposti alla realtà sociale, estranei ad essa, mentre per ampia parte della popolazione «la democrazia è un fatto privo di significati politici».

Zitara racconta un Mezzogiorno imbrigliato dalle clientele, in cui il fascismo ribolle come potenziale via di uscita, come testimoniato dai moti di Reggio Calabria proprio in quel periodo, e le aree popolari esterne allo sviluppo economico sono una realtà di massa, caratterizzate da una forte eterogeneità sociale ma da una comune condizione di precarietà. Registrando, in diretta, quanto i riferimenti allo sviluppo inclusivo di tutti, alla fine della povertà e alla piena occupazione fossero una costruzione ideologica già negli anni definiti da altri come «i gloriosi trenta». Nell’incapacità di riconoscere tale realtà, così diversa da quella del nord, Zitara vede i grandi limiti dei sindacati e dei partiti di sinistra, così come degli intellettuali meridionali. È un’area condannata alla subalternità nei riguardi del Nord, come le colonie lo sono nei confronti delle metropoli imperialiste. Per questo, essa può liberarsi solo ridefinendo i rapporti di forza con le altre aree, a partire da una nuova organizzazione produttiva fondata sull’equilibrio delle sue comunità e non sui grandi impianti industriali inquinanti.

DUNQUE, ZITARA propone una prospettiva socialista meridionalista, che i successivi sviluppi fondati sul rafforzamento della rendita fondiaria, il saccheggio del territorio e l’approfondimento delle politiche clientelari allontaneranno per rafforzare i legami tra i partiti di governo e ampie parti delle aree popolari meridionali. Anche dagli esiti di questa affermazione, che non bloccherà le emigrazioni meridionali, riprese a livelli di massa già durante gli anni ’90 dopo un rallentamento solo nel decennio degli ’80, ripartiranno alcune analisi neoborboniche, a cui Zitara verrà annesso. E questo si è verificato nonostante esse fossero così lontane dalla sua proposta elaborata in questo testo, fondata sulla liberazione e l’autonomia meridionale e non di certo su restaurazioni neo-monarchiche antipopolari. Quello di Zitara, d’altronde, è stato un percorso intellettuale non in sintonia con i movimenti sociali prevalenti nella società meridionale nell’ultimo cinquantennio. Questi ultimi, infatti, non hanno elaborato e fatta propria un’ipotesi separatista, ma hanno aperto con lo Stato un rapporto ambivalente, utilizzandolo per sostenere processi di redistribuzione economica ma anche fronteggiandolo come nemico interno, da cui difendersi, come, ad esempio, nel ciclo di lotte contro discariche e inceneritori in Campania dell’ultimo decennio.