La proposta di un quantitative easing for the people è stata avanzata lo scorso marzo da un gruppo di economisti con una lettera pubblicata sul Financial Times. Successivamente il nuovo leader laburista Jeremy Corbyn ha parlato di people’s quantitative easing. Noi l’abbiamo ripresa su questo giornale il 21 ottobre. Vorremmo ora recuperare tale proposta per approfondirla, entrando nel merito del ragionamento a essa sotteso, perché non resti uno slogan, ma possa rappresentare una credibile sfida nel dibattito economico-finanziario di questi tempi.

Gli obiettivi espliciti del quantitative easing (Qe) ufficiale sono due: da un lato l’aumento della liquidità in circolazione per evitare la contrazione del credito e per aumentare il tasso di inflazione; dall’altro lo stimolo all’erogazione del credito, e dunque alla crescita del Pil, attraverso l’acquisto di obbligazioni pubbliche e private e la riduzione del rischio su una vasta gamma di attivi non solo finanziari. Gli obiettivi impliciti, invece, riguardano la svalutazione delle monete per agevolare l’esportazione (in Europa e Giappone) e per ridurre lo spread dei rendimenti sui buoni del tesoro, facilitando in tal modo la sostenibilità del debito pubblico nei paesi periferici (Europa). Sotto questo profilo, paesi come l’Italia e la Spagna, in cui le banche sono grandi detentrici di titoli sovrani, in questi mesi hanno potuto migliorare la loro forza creditrice vendendo questi titoli alla Bce e liberando quindi i propri bilanci.

Il contributo del Qe alla crescita economica è però, secondo la maggior parte degli analisti, minimo. Negli Stati Uniti, secondo uno studio recente di Curdia e Ferrero della Fed, si aggira attorno a 0,26 punti percentuali. Il motivo risiede nel meccanismo stesso del Qe, in particolare nella intermediazione bancaria che impedisce alla liquidità creata e iniettata in circolazione di «sgocciolare» nell’economia reale.

Rompere il circolo vizioso

Questo è particolarmente vero in un periodo in cui i tassi di interesse sono già molto bassi, così come le aspettative di crescita complessiva (stagnazione secolare nei paesi sviluppati, rafforzata dalla diminuzione del tasso di crescita nei paesi emergenti). Ne consegue che l’aumento della liquidità in circolazione alimenta gli investimenti finanziari senza stimolare la domanda interna, alimentando il circolo vizioso di «stagnazione con finanziarizzazione».

L’effetto netto del Qe è quello di accrescere la ricchezza dei ricchi senza alcun contributo all’aumento generale dei redditi. Dall’inizio della crisi e delle misure di Qe le disuguaglianze sono infatti cresciute ovunque in modo spettacolare. L’effetto ricchezza c’è stato ma, appunto, si è concentrato nel 10% più ricco. In particolare, il Qe non ha favorito l’aumento di investimenti infrastrutturali socialmente utili (alloggio e trasporti, ma anche sanità e ricerca).

Più il Qe si protrae nel tempo, meno è efficace e, soprattutto, più difficile è uscirne. Gli stessi Stati Uniti, dopo tre anni di Qe e di bassi tassi di interesse, si trovano di nuovo di fronte al problema di evitare un aumento distruttivo dei tassi di interesse indotto dal disinvestimento dal loro debito pubblico da parte dei paesi emergenti, in particolare della Cina (ma anche della Russia, del Brasile, etc..). Non è esclusa, infatti, una riedizione americana del Qe per contrastare gli effetti della crisi dei paesi emergenti sui paesi sviluppati. In questo senso, il Qe da politica monetaria non convenzionale si sta rivelando una politica monetaria convenzionale, destinata cioè a durare nel tempo. È quindi legittimo porsi il problema di un altro Qe, non convenzionale.

L’attuale Qe europeo, ad esempio, acquista titoli pubblici e privati, con una maturità che può andare da 2 a 30 anni, per un valore di 1140 miliardi di euro, pari al 12% del Pil continentale. Una tale operazione può essere gratuita? Oppure comporta una sorta di slittamento del rischio verso le autorità monetarie? Allargare la base monetaria attraverso le banche centrali non consente di far sparire il rischio dal sistema. Qualcuno addirittura paragona le banche centrali coinvolte nel Qe alle bad bank, cioè a quelle strutture ideate appositamente per alleggerire i sistemi bancari dal fardello dei crediti incagliati e deteriorati. In entrambi i casi, acquisto di titoli con nuova moneta oppure creazione di apposite strutture per convogliare crediti difficilmente esigibili, la speranza è quella di allontanare i pericoli, ma attraverso la fondamentale garanzia di autorità pubbliche. Alla logica puramente monetaria e finanziaria segue sempre un ancoraggio alla realtà economica.

In entrambi i casi, quindi, la garanzia pubblica finisce per costituire un potenziale ritorno al versante fiscale, per quanto dilazionato nel tempo. Il ruolo di garante di ultima istanza per la sfera pubblica fotografa l’impossibilità di un progetto finanziario privato strutturalmente autosufficiente. Qui si apre una breccia per ipotizzare un diverso sbocco per l’alleggerimento quantitativo, dato che c’è il rischio che l’intervento di una banca centrale si trasformi poi in un prelievo fiscale sulla collettività. Perché allora non ipotizzare che la Banca centrale fornisca denaro direttamente ai cittadini oltre alla creazione di infrastrutture socialmente necessarie? Sfruttare l’espediente di crear moneta al fine di una redistribuzione della ricchezza volta a creare domanda e investimenti aggiuntivi socialmente selezionati.

Risorse per il sociale

Il Qe ufficiale ha una scadenza temporale per quanto attiene l’acquisizione di titoli, ma non esiste un rigido calendario per la neutralizzazione del programma di acquisti. Il programma può interrompersi, ma non ne consegue un ritorno alla quantità precedente di moneta in circolazione. Molti addirittura lo escludono. Un Qe sociale potrebbe dare vita a un ventaglio di offerte di denaro. Dal mutuo per la prima casa senza interessi o per prestiti a tasso zero, fino a fornire direttamente una somma a perdere per i soggetti socialmente più in difficoltà. Tale operazione, considerato l’attuale contesto, non darebbe certo vita a fenomeni di inflazione fuori controllo. Inoltre un Qe sociale potrebbe fornire risorse per un piano di opere per la messa in sicurezza dei territori e delle infrastrutture, un piano che potrebbe essere recuperato attraverso un’imposizione fiscale sul fronte finanziario, cioè il principale beneficiario dei Qe convenzionali.

Questo progetto di Qe non convenzionale non ha pretese risolutive per l’attuale crisi. Potrebbe perfino necessitare di una parziale moratoria sui debiti sovrani dei paesi periferici se dovesse sostituire gli attuali Qe che, di fatto, stanno riducendo di non poco il servizio sui loro debiti di nuova emissione. Tante sono le contraddizioni in campo, ma perlomeno ha l’ambizione di provare a spostare il baricentro del discorso economico e politico e, al contempo, di fornire risorse, dunque poteri, alle classi meno agiate, dentro una logica conflittuale che non può certo essere addomesticata.