Che Matteo Renzi sia un comunicatore efficace, un «battutista» e un «annunciatore», lo abbiamo capito immediatamente; anche se non tutti gli osservatori hanno collegato queste sue pratiche comunicative al modello Berlusconi. La politica come annuncio perenne, la riduzione del programma a un elenco infinito di cose da fare, e «che faremo», lo stile dell’ostentata disinvoltura, il dichiarato fastidio per le regole del gioco, l’insofferenza per i corpi intermedi e le istituzioni di controllo, il tutto all’insegna della fast politics. La promessa e la speranza: le due linee conduttrici del discorso renziano, trappole tese al popolo, secondo una elementare, forse un po’ banale verità.

La speranza è dichiarata fin dal riferimento al suo partito, suo anche in senso stretto, vorrei dire proprietario: «Siamo un partito che è visto come una speranza in tutta Europa». Nella serie di parole/concetti della politica annunciatoria e declaratoria renziana, l’Europa occupa una posizione centrale, all’insegna della bizzarra combinazione di orgoglio patriottico («Noi i soldi sappiamo dove metterli»; oppure: «l’Italia dei prossimi anni sarà la locomotiva in Europa»; o, su un altro registro: «Stanotte nel canale di Sicilia è nata una bimba salvata dall’impegno italiano»; insomma, gliela facciamo vedere noi, di cosa siamo capaci, se ci lasciano operare), di rivendicazionismo secondo lo slogan infinite volte ripetuto «costruire un’Europa più legata alla crescita e meno al rigore»), e di ostentata fedeltà non solo ai princìpi europeisti, ma a tutti gli orientamenti economico-finanziari che giungono da Bruxelles («non sforeremo il debito»).

Le altre parole che Renzi sparge a piene mani nel suo eloquio sono: coraggio, fiducia, merito, e naturalmente, riforma, declinato al sostantivo, ma anche in forma verbale. Tutto questo armamentario all’insegna dell’ottimismo e della determinazione ad «andare avanti», si combina con la deprecazione dei pessimisti, di «quelli che remano contro». O, per dirla col lessico giovanilistico, tweettistico, del premier, i «gufi», davanti ai quali il giovane capo sfodera tutta la sua aggressività: «Li guardiamo negli occhi quelli che criticano e ostacolano perché questa volta non ce ne è per nessuno, questa volta le facciamo le riforme basta con i gufi». Ogni promessa renziana suona come un avvertimento minaccioso: egli vive pienamente nello spazio della sospensione della democrazia.

Accanto ai gufi ci sono, naturalmente, coloro che frenano, o semplicemente che rallentano, che egli minaccia di asfaltare, se non cambieranno atteggiamento. La sfida è lanciata: «Se vogliono contestare il governo lo facciano», e manda la polizia a pestare gli operai che chiedono lavoro. «Vogliono sostituirmi? Ci provino». Sfida all’ok Corral, insomma. Che vale anche per tutti coloro che sono riottosi ad adeguarsi al nuovo clima, quello della politica giovane, della politica smart, caratterizzata da efficienza e velocità. «Ai teorici dell’inciucio diciamo: vi è andata male», accingendosi a varare un governo esattamente «inciucista». La coerenza, si sa, non è il forte del nostro giovane presidente, che cambia sovente posizione, in nome della rapidità. Non c’è tempo da perdere, in «sterili discussioni», questo il mantra renziano: occorre decidere, occorre agire, per «cambiare il paese». A tal proposito, basti ricordare le immortali, roboanti dichiarazioni, all’indomani della sua ascesa al seggio della segreteria di partito: «Tutti questi voti li abbiamo avuti per scardinare il sistema, non per sostituire il loro gruppo dirigente con il nostro. Non può bastare essere iscritto al club degli amici per avere un ruolo». Detto fatto. Il suo governo, il suo staff, è inzeppato di amici, fedeli, seguaci, donne e uomini che pendono dalle sue labbra, e che per la loro fedeltà si sono visti premiare, a cominciare dallo stuolo di signore, da Mogherini (poi spedita in Europa a far meno danni, si opina) a Boschi (che ripete psittacisticamente parole inerti), da Pinotti a Madia che da veltroniane o dalemiane o bersaniane sono divenute di colpo renziane, ricevendo in cambio cariche del tutto al di sopra delle loro capacità.

Come Berlusconi, il leader Pd non di rado indulge al lessico sportivo, segnatamente calcistico: «Oggi che abbiamo vinto» dichiara subito dopo la vittoria alle primarie del dicembre 2013, «pensiamo a tutte le volte che abbiamo perso … Mi avete dato la fascia di capitano. E con questa io mi impegno da subito a lottare su ogni pallone». Ma forse la metafora preferita è naturalistica-marinara: il paese è immerso nella palude, e lui stesso è il nocchiero che guida la nave per «uscire dalla palude», appunto. La palude è data dal parlamento, dalla burocrazia, dai gufi e dai professori. Sono loro, il nemico interno, gli eterni «conservatori», contro cui occorre agire, con determinazione: «I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude. Ma l’Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro».

La palude è, più in generale, la «vecchia» politica, quella dei «giochini di palazzo»: «Cambiamento», anche in forma di verbo, «cambiare», è la parola chiave dell’intero lessico renziano. Sembra che conti in lui più il movimento che il fine, come per il vecchio Bernstein: nel caso specifico il cambiamento è di per sé l’obiettivo da perseguire: «Cambieremo questo paese», è lo slogan dell’era Renzi. Il quale, da post-futurista, si dà dei tempi rapidissimi: «100 giorni per cambiare il paese» (salvo annunciare «un sistema di governo che duri per i prossimi 1000 anni»). Sono trascorsi ben più di 100 giorni, e il paese rimane quello che era, nel bene e nel male. Colpa dei gufi e dei professoroni? L’ingiuria a questi ultimi, reiterata dalla ministra Boschi, richiama di nuovo il berlusconismo, di cui il renzismo si rivela l’approdo: la fase suprema.

Se tuttavia i professori sono disposti a collaborare, nell’interesse della nazione, di cui egli è interprete autorizzato, lascia intendere che la sua mano è tesa anche verso di loro. Parcere subiectis, debellare superbos, insomma. In ogni caso, insiste su un concetto elementare: «Questa è la volta buona». Variante: «È finito il tempo dei si farà: ora o mai più». La sindrome dell’ultima spiaggia, un nuovo capitolo dell’eterno «Io vi salverò», che tanti guasti ha già prodotto nella nostra vicenda nazionale. «Guai al paese che ha bisogno di eroi», si dice, citando Brecht; ma forse è il caso di aggiungere «guai al paese che è in cerca di salvatori». Salvezza da Renzi – ecco il messaggio – o diluvio: «O questo passaggio lo portiamo a casa o salta l’Italia».

Amen.