Un cognome non è mai banale. Rappresenta bagagli affettivi, narra origini, contiene significati. Nel caso di van Straten ha anche una portata storica. Scelto nel 1811 da Hartog, capostipite di una famiglia ebrea e venditore di cetrioli a Rotterdam, a quel cognome e alla sua storia Giorgio van Straten ha dedicato il romanzo Il mio nome a memoria che uscì vent’anni fa per Mondadori vincendo i premi Viareggio e Procida. Poiché i destini dei libri sono misteriosi e balzani, il romanzo di van Straten scomparve dagli scaffali. Ora Francesco Brioschi Editore (pp. 364, euro 20) lo ripubblica in una nuova collana, «Storie e Vite», dedicata a biografie di narratori italiani e curata da Andrea Kerbaker e Isabella Bossi Fedrigotti.

TUTTO COMINCIA quando un editto di Luigi Bonaparte, fratello di Napoleone, obbliga gli ebrei olandesi a darsi un cognome. Fino ad allora la tradizione della comunità ebraica voleva che al nome del figlio si aggiungesse quello del padre. Fu così che Hartog Alexander divenne Hartog van Straaten, che in olandese significa strada. Poi, nella registrazione di matrimonio del pronipote George cadde una a e così ha continuato a chiamarsi il ramo italiano da lui discendente.

Il mio nome a memoria si muove su due filoni, le vicende personali e quelle storiche che l’autore intreccia senza mai cadere in patetismi o nostalgie di facile presa. Paragonandosi a un restauratore di affreschi, van Straten interpreta le parti sbiadite, ma ancora intelligibili, con piccole pennellate che danno l’idea dell’insieme. Per darsi l’autorizzazione di immaginare ciò che non è documentato, e quindi raccontare con gli occhi del romanziere, ha bisogno di tracce concrete come un documento, delle foto, un ritratto, un oggetto. È un lavoro che incastra ricostruzione storica e immersione immaginifica in modo così profondo che sembra quasi di essere lì con l’autore mentre tocca ed esamina quei reperti sgualciti che spesso sono le uniche tracce di parenti di cui non si sa nemmeno quando sono morti e dove sono sepolti.

QUI ENTRA un secondo fattore che fa di questo romanzo una lettura avvincente e necessaria alla memoria collettiva. In questa prolifica famiglia si mescolano fisionomie nordiche e mediterranee, tracce di una mescolanza ashkenazita e sefardita, caratteri miti e altri ribelli, spiriti rivoluzionari e temperamenti obbedienti, laici e osservanti, tradizionalisti e refrattari alle regole, ambiziosi e modesti. In virtù di queste differenze c’è chi non si sposterà mai dall’Olanda e non cambierà mai lavoro e chi, grazie anche all’impiego in una potente compagnia di assicurazioni creata dal nulla da Henri Goldstück (un ebreo lituano emigrato giovanissimo in Francia) lavorerà in tutti i porti di Europa, da Odessa a Rouen, da Londra a Rotterdam, da Stettino a Genova dove viene trasferito, e rimarrà per quasi tutta la vita, George van Straten, l’omonimo nonno dell’autore.

SEMBRA QUASI di essere in un’unione Europea ante litteram. Di mano in mano che il racconto si avvicina ai giorni nostri il documento storico prende piede sulla parte romanzata e, con lui, l’evidenza di come i destini siano legati al luogo in cui ci si trova perché la persecuzione nazista sterminerà la parte della famiglia che non aveva voluto o potuto lasciare l’Olanda. Ci sono poi figure tragiche che per ragioni diverse moriranno giovani non riuscendo a realizzare i propri sogni. Di loro l’autore, benché non li abbia conosciuti, restituisce un ritratto vivido e lancinante, una memoria indelebile delle loro occasioni perdute e di scelte fatali durante un secolo caratterizzato da rivoluzioni, dittature, guerre e stermini.