La gioventù di Domenico Beccafumi è stata finora un capitolo poco risolto della storia dell’arte. Giorgio Vasari – che pure confezionò per lui una biografia densa di elogi – certo ha contribuito al mistero, mascherando il suo esordio dietro un racconto dai contorni favolosi. È una storia, la stessa dell’incontro tra Giotto e Cimabue, che si ripete. Figlio del contado e autodidatta d’ingegno, Domenico trascorreva il tempo del pascolo disegnando. Restò affascinato da quella vocazione sincera Lorenzo Beccafumi, mercante-banchiere di Siena. Così lo prese a servizio e si fece carico del suo destino. Da lì Domenico (divenuto Beccafumi in omaggio al mecenate) crebbe sempre più, fino a diventare uno degli artisti simbolo del Cinquecento italiano.
È con la traduzione visiva di questo episodio, nell’opera di Cristiano Banti, che si inaugura il percorso dell’antologia Domenico Beccafumi, l’artista da giovane (Montepulciano, Museo Civico, a cura di Alessandro Angelini e Roberto Longi). L’obiettivo è far luce sulla preistoria di un genio prima della consacrazione pubblica. Il tutto si fonda su una scommessa attributiva, assicurata da interessanti novità documentarie. È proprio a Montepulciano, infatti, nel tempo in cui Lorenzo Beccafumi era podestà, che il pittore uscì allo scoperto.
La prima sala, giocata nell’integrazione tra testi figurativi e documenti scritti, è un monumento a questa ricostruzione. In un gioco di specchi, il quadro di Banti trova sostanza nelle Vite del Vasari e una selezione di pezzi d’archivio rimanda alla prima opera del Beccafumi. È una tela con Sant’Agnese Segni, la domenicana tanto ammirata da Caterina da Siena: icona di solenne semplicità, mistica e insieme civica. La carriera di Domenico Beccafumi comincia adesso, eppure il suo posto nella geografia dell’arte è già chiaro. Incontriamo un artista inaspettato; tutt’altro rispetto alla personalità visionaria della maturità. È, invece, la cultura del Rinascimento gentile dei maestri umbri e fiorentini a stimolarlo. Il confronto a distanza con il Riposo dalla fuga in Egitto di Fra Bartolomeo cade a proposito.
La Sant’Agnese è soltanto la punta di un iceberg in emersione. Le novità in mostra hanno, infatti, rimescolato le carte e un generale ripensamento del pittore è in corso. E così il dipinto diventa la chiave per una riscoperta più larga. Di opera in opera, si forma sotto i nostri occhi il profilo frastagliato di un genio in incubazione, dall’identità in costante crescita. Le atmosfere precise di Perugino, il dialetto nostalgico del Quattrocento senese, le emozioni vibranti di Leonardo: i riferimenti si confondono, battendo rotte imprevedibili. Da qui alle opere note il passo è breve.
Per quanto il numero dei dipinti non sia cospicuo, la mostra accenna con efficacia al fermento vissuto nella fase aurorale della Maniera moderna. Peccato per l’allestimento sacrificato che, alternando la collezione permanente a quella temporanea, frammenta e confonde la fruizione. Il recupero dei primissimi giorni del Beccafumi pittore avrebbe meritato ben altra cura espositiva.
La mostra di Montepulciano appartiene alla rassegna Il buon secolo della pittura senese, un racconto in tre tempi per altrettanti scenari della storia dell’arte in terra di Siena. Il cammino prosegue allora a San Quirico d’Orcia. Qui, opere riunite sotto il titolo Dal Sodoma al Riccio, la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica (Palazzo Chigi Zondadari, a cura di Gabriele Fattorini e Laura Martini) rendono evidente che il Cinquecento fu anche e soprattutto tempo di crisi. Come se l’arte fosse diventata indice delle cicatrici del tempo, piccole composizioni di contrita virtù documentano un momento di ripiegamento. Una gloriosa eredità era andata in fumo, sprofondata sotto il peso delle incertezze e dell’oscurità degli ingegni. Su tutte primeggiano, al contrario per qualità, le opere di Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma, e tra queste le quattro testate di bara per la Compagnia della Morte di Siena e la Natività della Vergine, restaurata per l’occasione. Insieme a queste, ancora Beccafumi. Ecco che si staglia un fantasma macilento, un Cristo portacroce turbato nel profondo. Vale la pena di avvicinarsi quanto più si può e prendere la mira su ogni singola pennellata, sbrigativamente stesa.
Con un significativo salto temporale, la narrazione si prolunga e varca le soglie del secolo. Pienza fa da palcoscenico all’ultimo capitolo, a tema Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco gentile (Conservatorio San Carlo Borromeo, a cura di Marco Ciampolini e Roggero Roggeri). Si ha modo di apprezzare la qualità indubbia del pittore, uno dei toscani che più amò le sperimentazioni a lume di candela. La selezione delle opere però non è affatto convincente. Il contesto contemporaneo è rievocato in superficie e non sempre i dipinti esposti risultano pertinenti allo scopo. Si può verificarlo, ad esempio, di fronte alle creazioni di Bernardino Mei e Domenico Manetti, artisti che per ragioni anagrafiche e stilistiche niente ebbero a che vedere col nostro. E questo avviene a scapito delle opere, in numero ridottissimo, di Alessandro Casolani e Vincenzo Rustici, il padre del pittore, che meglio avrebbero potuto spiegare le sue basi culturali.
Voltando le spalle al Buon secolo della pittura senese è forte la sensazione di un progetto suggestivo, ma incompiuto. Questo per l’assenza, al di là dell’appartenenza geografica, di un comune denominatore tra le iniziative (ogni mostra è elaborata come un’entità autonoma) e anche per la mancanza di un momento di sintesi che Siena, il centro di irradiazione delle tendenze artistiche verso la provincia, avrebbe dovuto rappresentare. Il titolo, allusivo ad un progetto sì itinerante ma omogeneo, si risolve così in una promessa mancata.
In margine, il catalogo (Pacini Editore) raccoglie ed integra ampiamente le riflessioni esposte in loco. È certamente in quelle restituzioni che affiora il risultato più significativo e vistoso del progetto.