Lucia di Lammermoor è uno di quei pochi i titoli che dall’epoca romantica sono giunti fino a noi con un’ininterrotta e complessa storia interpretativa, senza alcun passaggio di oblio. Croce e delizia di interpreti, direttori e filologi che si confrontano sui cambiamenti di tonalità, i tagli di tradizione, la celebre cadenza della «pazzia», oggi attribuita a Matilde Marchesi, e persino sulle sostituzioni abnormi di arie comunissime per tutto l’Ottocento.

 
Nei ricordi giovanili di Luca Ronconi restavano vivide le rappresentazioni del capolavoro di Donizetti al Teatro Reale dell’Opera, l’attuale Teatro dell’Opera della capitale, che ha ospitato un buon numero di spettacoli del regista (da Opera di Berio a Faust, da Fetonte di Jommelli a Teorema di Battistelli ), e che martedì sera ha aperto il sipario sul progetto che Ronconi, scomparso il 21 febbraio scorso, non è purtroppo arrivato a curare pienamente: la sua prima Lucia, e il suo ultimo progetto operistico, qui firmato dal gruppo dei suoi collaboratori (Ugo Tessitore regia, Margherita Palli scene, Gabriele Mayer costumi e Gianni Mantovanini luci). Prova postuma di una mente lucida fino all’ultimo nella realizzazione delle proprie idee teatrali, improntate qui a uno scabro nitore e a una lettura psicologica precisa fino alla crudeltà.
La scena, un alternarsi di scale, gabbie, torri, pareti e ponti mobili, di un asettico bianco, ospitava il dramma dell’annientamento della volontà di Lucia, e la sua disperata ribellione omicida in un luogo di reclusione che pullula di uomini armati e di donne rinchiuse. Forse una prigione, un forte munito, ma financo un monastero ( Alisa è una suora, nemmeno tanto benevola, e a Raimondo viene restituita la dignità presbiteriale che ha nel romanzo di Walter Scott) o un ospizio per malati di mente. La natura,fra i fondamenti dell’estetica musicale romantica, è volutamente espunta da questo contesto di cinica crudeltà, affidata al piano musicale e talvolta a brandelli di cielo notturno in tempesta, alla muta luna lattea e ai riflessi della fonte del primo atto, mutata in gelido lavatoio d’ospedale. Restano alla fine le antiche tombe dei Ravenswood dove Edgardo muore suicida accanto al feretro di Lucia.

 
Roberto Abbado, sul podio dei complessi dell’Opera di Roma in buona forma, si incarica di restituire in pieno la natura romantica dell’opera, che accende di un impeto che però non soffoca mai le ragioni del canto, cui peraltro offre la ricchezza della partitura con più di un taglio di tradizione aperto. Particolarmente concentrata sugli arditi passaggi pirotecnici ( specie la scena della Pazzia e la cadenza «spuria», con la splendida glassarmonica suonata Sasha Reckert) la Lucia di Jessica Pratt possiede anche il fisico perfetto per il ruolo, mentre Stefano Secco governa bene la doppia natura che chiede Edgardo, flessibilità e grazia ma anche scatto muscolare.

 
Ugualmente partecipi Alessandro Liberatore (Arturo) e Normanno ( Andrea Giovannini), forse leggermente meno a fuoco Marco Caria (Enrico) e Carlo Cigni (Raimondo).
Alla fine successo e atmosfera di sincera commozione, forse più in palcoscenico che nelle file della platea per una recita inaugurale alla quale ha assistito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Segno di rispetto per la memoria di Luca Ronconi, ma anche di un’attenzione che ci auguriamo il teatro possa far fruttare.