La poesia può sondare l’indicibile, collegare lontananze, avvicinare distanze, persino creare mondi paralleli o percezioni del quotidiano lontane anni luce dal nostro sentire. Nel nuovo libro di versi di Andrea Bajani, il mondo animale – con il quale molti di noi nell’Occidente consumistico, urbanizzato o metropolitano hanno da tempo un rapporto alterato – diventa perturbante, mette in contatto il naturale con l’artificiale, il mondo vivo del reale e quello tecnologico, dentro un comune disorientamento. Lo stesso shock che prova il gabbiano «che porta il mare sul terrazzo», scambia una palazzina degli anni ’50 per la propria Dimora naturale (Einaudi) – che è anche il compiuto e provocante titolo del libro – o chi di notte vede sullo schermo tv gli «sbadigli dei felini», immagini che colgono un nuovo modo di coabitare città e campagne ma anche i tanti non luoghi dei nuovi paesaggi metropolitani. Ma sempre in agguato c’è il riscoprire la nostra di animalità, anche quella sopita, dimenticata, cancellata, quando diventiamo seppia, e guardandoci allo specchio «l’amore ti fa rossa, /bianco è il tuo colore della resa».

Quindi tra l’umano e il non umano, sta a dirci questo libro, c’è qualcosa di più oltre un darwinismo sociale e di specie, una osmosi, sono vasi sotterraneamente ma ormai invisibilmente comunicanti, e anche «la poesia, lo strazio vocale di ogni io» nel suo farsi diventa «voce della specie». Ma il mondo animale torna non solo nei versi ma anche nelle storie ataviche, ancestrali, dove i lupi «vanno dentro e fuori dalle fiabe», stanno nella natura, nei loro territori selvaggi, in quelle che Morizot chiama «piste animali», ma che la letteratura dentro il suo spazio fa diventare altri, li trasforma in presenze dell’immaginario, li mette in un altro mondo e in un altro spazio, quello della letteratura, della fiction, «dell’impostura» direbbe l’autore. E’ dentro questo spazio, molte volte giocoso e combinatorio, abilmente provocatorio e ironico, che la poesia ecologica, creaturale e civile di Andrea Bajani, entra in contatto con questo spazio invisibile, una porzione di senso che sfugge alla comprensione razionale, al pensiero lineare, e proprio in virtù di questo per essere rappresentata ha bisogno di una lingua poetica, che spesso agisce per conflitto di immagini, tra appunto ipermodernità e foresta, volo e stanzialità domestica, firmamento e macchine a motore, e sta tutta dentro il dilemma, la ferita aperta e la sensibilità nuova del mondo globale, che «chiamano sviluppo ma è velocità», con uno sguardo disilluso verso il mondo antico. Ironizza, e parla di «professione» quella degli scoiattoli nei parchi, o dei «piccioni nelle piazze», quel circo metropolitano che «è proselitismo con il biscotto in mano/capitalismo snocciolato agli animali». Ma c’è anche quello che Michel Serres chiama «mondo muto» in questo piccolo e prezioso libro, la terra, i fiumi, i laghi, sconvolti dalle alterazioni climatiche, che parla appunto di un nuovo patto con la natura, la terra che in alcuni di questi versi «riprende a respirare» dopo che gli operai con la scavatrice spaccano la strada, una volta «ristabilito il patto originale».

Leggendolo mi è venuta in mente l’ultima produzione saggistico-narrativa di Paolo Volponi, che primo tra tutti aveva colto trent’anni fa, visionario come pochi, le avvisaglie di un mondo nuovo dove le macchine, un calcolatore in grado di scegliere e di affezionarsi – il testo si intitola Cane artificiale – avrebbero «le proprietà di abbiare, scodinzolare e riportare», una macchina fatta per sopraffare e comandare gli uomini vivi ma ormai immersi nella loro «lontananza animale», così lo definisce Volponi, che probabilmente avrebbe amato questo libro così radicalmente e apertamente politico. Lui che aveva detto di sé, del suo istinto animale: «Mi piace chiamarmi Volponi e penso all’eroismo della volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare. Io sono così, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi strappo la gamba pur di scappare».