In questi giorni il sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano Alexander Pereira vede realizzato il suo sogno decennale di portare sulle scene un’opera musicata dal compositore ungherese György Kurtág, cui lo lega un’amicizia trentennale. Si tratta di Samuel Beckett: Fin se Partie, scènes et monologues, un evento straordinario se si considera che è una prima esecuzione mondiale, in coproduzione con la Dutch National Opera di Amsterdam, inserita in una fitta rete di collaborazioni, locali e internazionali: prima di giungere alla Scala, le prove dello spettacolo si sono svolte tra Amsterdam e il Budapest Music Center, residenza del compositore; la 27a edizione del Festival Milano Musica, intitolata György Kurtág. Ascoltando Beckett, dedica 22 concerti al rapporto tra lo scrittore irlandese e la musica, non solo di Kurtág; il Piccolo Teatro ha messo in cartellone Finale di partita di Beckett; presso il Ridotto dei Palchi della Scala è stata allestita la mostra György Kurtág, Segni, giochi, messaggi.

L’evento è straordinario anche perché si tratta della prima composizione operistica di un autore novantaduenne che ha dedicato il resto della sua vita alla musica da camera, dunque a forme brevi e a compagini strumentali e vocali ridotte. Da poco rifugiatosi a Parigi dopo la dura repressione sovietica della rivoluzione ungherese, mentre studia con Messiaen e Milhaud, nel 1957 su consiglio dell’amico Ligeti Kurtág assiste alla prima di Fin de partie, di cui poi acquista il testo insieme a quello di En attendant Godot, sui quali inizia il suo interminato percorso di confronto con la parola beckettiana, sigillato dallo spettacolo attuale, primo lavoro in assoluto per il teatro musicale tratto da un testo di Beckett (il progetto di Pierre Boulez di trarre un’opera, che sarebbe stata la sua prima, da En attendant Godot fu interrotto dalla morte del compositore).

Al contrario di quanto affermato in molti articoli, mettendo in musica fedelmente circa la metà del testo originale (a meno di numerose didascalie e poche aggiunte assai minute), Kurtág non inventa nulla, ma si riallaccia alla gloriosa tradizione della Literaturoper di primo Novecento, quando era di moda usare come libretti testi drammatici preesistenti senza alterarli (si pensi a Pelléas et Mélisande, Salome e Francesca da Rimini). Certo è che il testo di Beckett, che si porta dietro la disintegrazione della forma, la messa in mora del senso, la disgregazione della testualità e la dissoluzione del teatro, tra le mani di Kurtág non diviene tanto un inno alla letteratura, quanto un suo epitaffio, estrema propaggine di un lavoro di ripensamento di una tradizione millenaria iniziato con le avanguardie storiche, che si sposa naturalmente con il carattere sottrattivo, aforismatico, cesellatorio, intermittente, interrogativo, ipersoggettivo della musica del compositore. I borborigmi sconclusionati, significanti senza significato, cui Beckett riduce il testo letterario, sono il punto di partenza per la tessitura di significanti senza significato della partitura di Kurtág: una fuga al quadrato verso la desemantizzazione dei segni, verso l’afasia.

Il direttore Markus Stenz rende onore a questo progetto ambizioso dirigendo l’orchestra scaligera con un’attenzione spasmodica al dettaglio e una cura stupefacente dei volumi, seguìto da presso dai bravissimi cantanti Frode Olsen, Leigh Melrose, Hilary Summers e Leonardo Cortellazzi. La regia di Pierre Audi, le scene di Christof Hetzer e le luci di Urs Schönebaum danno corpo al loop semantico di una partita che continua dopo la sua fine con uno spettacolo che letteralmente si avvita su se stesso.