Condividere un appartamento tra persone che non sono legate da rapporti affettivi o di parentela non è un’esperienza insolita in Europa o negli Stati Uniti. Che siano gli studenti Erasmus dell’Appartamento spagnolo di Cédric Klapisch, o gli adorabili nerd della sit-comedy The Big Bang Theory, la convivenza con altri pari si è ritagliata una parte consistente all’interno dell’immaginario collettivo, e sembra rappresentare un momento imprescindibile nella formazione di giovani donne e uomini, il ponte verso una presunta età adulta con relative responsabilità.

Nel Giappone contemporaneo, però, questo paradigma culturale sembra non aver attecchito, tanto che la convivenza à la Friends è vista come qualcosa di occidentalmente esotico. Non che sia stato sempre così: a partire dagli studenti di Natsume Soseki fino alle memorie di una vita errante di Hayashi Fumiko, la letteratura giapponese moderna abbonda di ragazzi alla pari e pensionanti, che condividono spazi e servizi, una prassi a lungo considerata come normalità per gran parte della popolazione urbana. Questo modo di vita collettivo è sopravvissuto al secondo conflitto mondiale ed è arrivato alla fine degli anni Settanta, continuando a occupare un suo spazio nell’immaginario comune, come dimostra il caso del manga Maison ikkoku («Il condominio dell’attimo fuggente») di Takahashi Rumiko (da noi più noto nella sua versione animata e con lo stucchevole titolo Cara dolce Kyoko).

Tuttavia, la bolla economica degli anni Ottanta e la successiva deflazione hanno accelerato l’individualismo anche nel contesto abitativo, fissando lo spazio standard di vita per un single in poco più di venti metri quadrati. Per usare una metafora architettonica, alla caotica convivenza del fatiscente e splendido dormitorio Yoshida dell’università di Kyoto – ultimo baluardo di una cultura dell’abitare collettivo quasi premoderna – si è sostituito l’ideale parcellizzante di una società alveare incarnato dai mini appartamenti autosufficienti della Nakagin Capsule Tower, progettata da Kurokawa Kisho nel 1970. Poco importa se quella torre sia anch’essa ormai marcescente, così come sono evidenti gli effetti negativi dell’isolamento degli individui nei contesti urbani: in Giappone si vive sostanzialmente da soli, oppure in coppia con eventuali figli.

Per questo, ciò che si racconta in Appartamento 401 costituisce un’anomalia: Ryosuke, Kotomi, Mirai, Naoki e Satoru, i protagonisti dell’omonimo romanzo di Yoshida Shuichi (traduzione di Gala Maria Follaco, Feltrinelli, pp. 229, 16,00) occupano quello spazio di nascosto dall’agenzia, convinta di averlo affittato a una coppia, e ne condividono le due camere, il soggiorno, la cucina e il bagno, intrecciandovi i propri momenti quotidiani.

L’irregolarità della loro situazione logistica, che Naoki paragona a quella di «stranieri entrati clandestinamente in Giappone», si accompagna a una mancata rispondenza ai modelli socialmente accettati: Ryosuke è uno studente che non studia, Kotomi una sfaccendata che non cerca lavoro, Satoru un giovane sbandato e Mirai, che è in quell’età in cui le sue coetanee si accasano, sembra interessata soltanto a perdersi nell’alcol nei locali gay. Solo Naoki, con il suo lavoro di impiegato in una casa di distribuzione cinematografica, sembra arginare il caos che regna nella vita dei suoi coinquilini. Parata di personaggi borderline, il romanzo di Yoshida è solo in apparenza un mystery e si rivela invece un’acuta e toccante riflessione sulle ferite e sul travaglio della società giapponese contemporanea.