Sebbene ci separino tre o quattro generazioni, io e Gianfranco Nappi, da circa trenta-quarant’anni abbiamo fatto, nei più recenti momenti apicali, le stesse scelte politiche: ci siamo schierati, e abbiamo combattuto, per il «no» alla svolta di Occhetto e alla liquidazione del Pci; siamo stati, ancorché non pienamente convinti e dunque non a lungo, in Rifondazione Comunista; non ci siamo mai sognati di entrare nel Partito democratico (lui però ha ceduto alla prima variante vegetale del dopo Pci).E poi siamo stati tutti e due segnati sin dall’adolescenza dalla militanza, per ambedue lunghissima, nella Fgci.

È vero che riguarda tempi che più diversi fra loro non potrebbero essere – gli anni 40/50, per me, gli anni 70-80 per lui. Ma chissà perché quella esperienza giovanile ha lasciato un marchio particolare in tutti quelli che l’hanno vissuta, tant’è vero che quella antica appartenenza è tuttora occasione di incontro. Di alcuni di noi, Pajetta usava dire «non sei mai uscita dalla Fgci!». Per lui non voleva essere un complimento, per noi diventò un elemento distintivo.

ADESSO SIAMO QUI, ambedue, con i tanti che si chiedono – che continuano a chiederselo – che diavolo possiamo fare per ricostruire un soggetto di sinistra decente. Una volta a un congresso di una delle ultime trovate partitiche della nostra sinistra proposi di dotarci anziché di una federazione giovanile di una federazione anziani. Molti mi presero sul serio e a lungo ricevetti sollecitazioni a procedere. Era un buon segno, e mi pento di aver lasciato perdere: fra noi vecchi c’era molta più voglia di partito che fra i giovani, e questo «bisogno» sarebbe bene non buttarlo via.

E allora insistiamo nel discutere di come riprovarci. Nappi lo fa attraverso la bella rivista cui ha dato vita, «Infiniti Mondi», e ora con questo libro – Dedicato al Pci. L’opposto di un incidente della storia. Riflessione su passato e presente (Edizioni Infiniti Mondi, euro 15) – con cui rilancia le sue riflessioni e ripropone i suoi interrogativi. L’insieme, che intreccia esperienze vissute in prima persona – da quella che lo ha visto braccio destro di Antonio Bassolino nella tempestosa fase in cui è stato presidente della regione Campania, avvelenata dalla vicenda rifiuti; ad altre anche più antiche e più recenti – è dunque qui disponibile per esser valutato come patrimonio da conservare e rinnovare.
Nessuno, credo, vorrebbe buttarlo via come inservibile. Il problema è piuttosto come usarlo.

CAPIRETE BENE che questo tipo di libro che Gianfranco Nappi ci ha messo nelle mani non è cosa su cui si possa fare una recensione. Sarebbe troppo facile. Ci propone una domanda grossa, e non si può sfuggire al dovere di una risposta. Che tuttavia non è cosa riassumibile negli spazi di un quotidiano, ammesso che uno se la senta di farlo. Quanto a me, penso che a questo punto si possa dire qualcosa solo se si aggiunge un’altra, prioritaria domanda: ce la sentiamo, anziché affrettarci a definire una nuova formazione di sinistra, di avviare una fase lunga di riscoperta del mondo in cui viviamo e delle sue nuove contraddizioni che non siamo capaci di rappresentare innanzitutto perché non conosciamo più il mondo in cui viviamo? L’ondata di individualismo che ci ha sopraffatto ha avuto come conseguenza la drastica riduzione della nostra socialità, il nostro isolamento: intorno a noi c’è un pulviscolo di figure sociali difficili da interpretare e quindi, fatalmente, da rappresentare. Le contraddizioni che patiscono non sono più limpide come quando c’era una bella compatta classe operaia, culturalmente e socialmente omogenea, geograficamente concentrata, inserita nel ganglio determinante del sistema della produzione capitalista.

QUANDO SENTO QUALCUNO che propone «un partito del lavoro», per esempio, mi viene voglia di chiedergli: «bravo, ma tu sei capace di descrivermi questo lavoro, quale concretamente è, non dico nel mondo, ma almeno nel quartiere dove abiti?». «Sai dirmi come si fa a rappresentare la minestra frantumata che intravediamo, sai dirmi cosa unisce chi il capitale lo subisce direttamente e chi per via di dati meno diretti, ancorché altrettanto pesanti, come, per esempio, le vittime della oppressione di genere?».
Ecco, la mia risposta è: innanzitutto ritroviamo la capacità di rappresentanza sociale, e, per farlo, la capacità di vedere e di capire. E quindi di incontrarsi. È il primo, ma decisivo passo.

Riassumo con l’ indicazione di due nostri maestri illustri: Carlo Marx e Antonio Gramsci. Il primo suggeriva al movimento del suo tempo un compito prioritario: l’inchiesta. Il secondo: rendere i sudditi soggetti, non attraverso un insegnamento proveniente dall’esterno e nemmeno abbandonandosi alla forza della loro protesta spontanea, quanto piuttosto grazie alla loro capacità di uscire dal proprio io, riconoscersi nella relazione con l’altro, reimparare a essere collettivo. Gramsci pensava alla necessità di consolidare i movimenti di protesta in organismi permanenti in grado di gestire pezzi almeno della società. Li chiamava Consigli. Più modestamente basterebbe per ora tornare ad animare forme di democrazia organizzata su territorio, come premessa di ogni possibile partito che non si limiti a dire «votate per noi perché quando saremo al governo faremo». E che invece già comincino a fare.

IL CENTENARIO DEL PCI – ha ragione Nappi – avrebbe potuto essere una buona occasione per avviare quella riflessione sulla nostra storia comunista sempre auspicata e mai realmente fatta. E però sebbene le iniziative siano state tantissime, segno del peso che il Pci ha avuto nella storia italiana, spesso ho avuto la sensazione che ognuno parlasse di una storia diversa, tanto smarrita è la memoria di ciò che è davvero stata. Questo libro aiuta a riprendere, proprio perché intreccia la riflessione con cronache reali, una ricerca indilazionabile se vogliamo davvero definire «un nuovo inizio» e non solo struggersi nella nostalgia.
E poi ci sono le foto di Mario Riccio, basterebbero quelle per capire cosa è davvero stato il Pci. Almeno fino a quando, pur senza arrivare ad andare al governo, con quell’obbiettivo ha finito per immedesimarsi.