In aeroporto acquistai un romanzo ambientato in Giappone scritto da una giovane autrice tedesca, Marion Poschmann (classe 1969, nata ad Essen). Lo pubblicava uno dei miei editori, Bompiani, e dunque la curiosità, per così dire, era doppia. Il titolo era già invitante: Le isole dei pini. Ero tornato da poco da un viaggio in Giappone ed ero curioso di incontrare una nuova scrittura europea ricamata in quella parte di mondo. Ora, a dire il vero, già tante volte mi ero smarrito nei tentativi degli scrittori del mio tempo così innamori della cultura, del popolo e delle tradizioni nipponiche, di cogliere lo spirito di quel piccolo mondo miniato, ma raramente mi ero imbattuto in una scrittura ispirata che fosse originale e all’altezza dei non pochi capolavori che la letteratura giapponese ci ha consegnato, alcuni notissimi – cito in sintesi i solito noti, Kawabata, Soseki, Tanizaki, Abe Kobo, Oe, Mishima, Murakami, Basho, Ryokan, Yoshimoto e altri meno noti, ma nondimeno. A memoria ricordo con ammirazione il racconto poetico Neve di Maxence Fermine, Autostop con Buddha di Ferguson e la Amelie Nothomb di Stupore e tremore. Tutto il resto, per sommi capi, è alla fine un sunto, un saggio sulle originalità di una lingua e una cultura così distanti dalla nostra.

Le isole dei pini alla fine era una fuga, un’educazione alla giapponese per un ritorno alla vita ma più profondo, dove l’affastellamento delle citazioni era forse addirittura il vero motore del racconto. Lo stesso meccanismo di raccolta e accostamento divertito e talora bizzarro costruisce le poesie che ora Paola Del Zoppo traduce con sapienza per Del Vecchio, la raccolta dal titolo Paesaggi in prestito. Leggendo questi componimenti, costantemente in bilico fra prosa e poesia, mi vengono in mente le wunderkammer che nel Sette e Ottocento i ricchi e gli scienziati tedeschi andarono a riempire di ogni qual cosa più o meno curiosa essi trovassero, in giro, nei loro viaggi e tour alla ricerca del bello, per così dire, dello strambo, dal naturale all’archeologico, dall’abbandonato all’artistico.

Leggendo queste poesie ritrovo tanti versi che in vent’anni ho letto fra le pagine dei nostri coetanei italiani e in giro per i tanti paesi dove ho coltivato atti poetici. Dal nord America al sud est asiatico, dalla Casa Fernando Pessoa di Lisbona alle fredde stanze di Druskininskai in Lituania, la poesia degli ultimi anni è un accasare cose a caso, un tentare sentimenti, un immaginare vita che non si è vissuta; un illustrare tragedie personali, vere o presunte, poco importa, un evocare grandi fatti storici, un incrocio di realismo intimistico e confessionale e di scienza, dalla scoperta delle scimmie a Darwin, l’astronomia e l’astrologia. Un pizzico di questo, una coda di drago, un ala di pipistrello. Ed ecco, da questo punto di vista, non mi stupisce che diversi miei coetanei, e soprattutto coetanee, stiano salutando la raccolta della Poshmann come una delle più rappresentative delle ultime stagioni, poiché, effettivamente, essa ci coglie un po’ tutti, ci incarta in maniera chiara e distinta, o se preferite caotica e confusa.

«Blocchi di corteccia fredda, coperti di licheni / di vuoto e fuliggine. L’intonaco rigonfio, / la parte esterna che si aggrinza e cade, vecchi stracci. / All’interno, a tavoli nani i bambini aprono le loro borse / a tracolla e spargono briciole di biscotto / al burro Per un confronto, si legga la storia della cultura / dei bambini austriaci, / Fuori lo spazio defoliato e totale», un esempio colto a pag. 53. Si tratta spesso di frammenti, prove di scrittura totale che lasciano sbirciare come da un foro nella porta o una breccia nel muro. La storia ci ha investiti e lasciati imbambolati in un mondo dove il tempo di vivere occupa ogni spazio, prosciugando ogni possibilità di agire concretamente e magari di intervenire, di fare qualcosa di nuovo. I sogni qui sono piccoli e modesti, angeli dalle ali spezzate. Ci si accontenta di ogni minima variazione. Ma nulla ti appartiene, tutto è in prestito, come suggerisce il titolo, tutto è provvisorio, tu sei provvisorio, e la scrittura non è altro che una mappa per orientarsi.