Due fattori si stanno affacciando nelle relazioni internazionali, approfondendo dinamiche già in corso da tempo. La Cina realizza un mega accordo commerciale in un’area estesa oltremodo nel Sud-Est asiatico, coinvolgendo anche paesi come il Giappone e l’Australia. Il neopresidente Joe Biden lascia intendere che, sebbene orientati a maggiori aperture diplomatiche e commerciali, gli Stati Uniti proseguiranno nel partire da sé, dal loro ruolo di potenza.

I due blocchi, a est e a ovest, continueranno ad avere tra le altre ambizioni quella di conquistare un ruolo crescente in una relativamente ricca Europa, un importante sbocco per le rispettive esportazioni.

Il Vecchio Continente è conteso da ambo i lati come non mai. Al suo interno, invece, continuano le scorribande a impronta nazionale per succhiare dall’impalcatura europea maggiori vantaggi possibili, dentro una logica che ricorda il parassita che vive a spese dell’ospite. Salvo poi scoprire che quest’ultimo non riesce a sopravvivere. Le lungaggini nell’approvare il Recovery Fund sono solo l’ultimo esempio. La reazione alla crisi pandemica, però, lascia intravedere uno scarto, perlomeno parziale, dalle logiche fondate sulla semplice austerità.

Ancor prima della crisi, la Bce aveva rilanciato il Quantitative easing e i bilanci statali avevano previsto un balzo dei loro debiti, ora si aggiungono i primi timidi strumenti a livello continentale per fronteggiare una crisi dai tratti inediti. Denaro che questa volta potrebbe finire oltre che nell’economia finanziaria in quella reale, destinazione inusuale negli ultimi decenni. L’impressione è che i principali paesi, a partire dalla Germania che dall’Europa ha sempre guadagnato, siano intenzionati da una parte a svolgere un maggior ruolo di governo dell’Unione e dall’altra rilanciare la funzione della sfera pubblica in economia.

È una scelta spinta dal pragmatismo più che da un pianificato cambio di strategia, dettata da circostanze materiali che impongono una virata continentale in questa direzione. Viene così sospeso il pareggio di bilancio ma, ancor più significativo, vengono sospese le regole che impedivano i salvataggi pubblici.

Il nuovo approccio si affaccia anche in Italia, dove lo Stato in questo periodo rilancia il proprio ruolo in Alitalia, rileva il 50% delle acciaierie ex Ilva e sembra persino ipotizzare un ruolo in un possibile processo di assemblaggio bancario tra Unicredit e Monte dei Paschi (già parzialmente pubblica). Si assiste a un frenetico attivismo in progetti di riconversione industriale e non solo di Cassa depositi e prestiti e Invitalia (Agenzia nazionale per lo sviluppo, di proprietà del Mes). A dodici anni dall’ultimo crack globale, la crisi pandemica ci consegna una parte rilevante dell’impresa produttiva in crisi, con sempre maggiori difficoltà a superare inefficienze e cambiamenti di mercato e a sviluppare strategie di investimento a lungo termine.

Il neoliberismo è sorto anche dalla critica all’inefficienza dell’economia pubblica, ma oggi è proprio l’inefficienza del neoliberismo a riportare nel novero del possibile l’intervento pubblico. Occorrei riflettere sui limiti delle esperienze passate, ma anche sottrarsi al gioco che vuole lo Stato unicamente al servizio del rilancio dell’impresa privata.

Gli ultimi decenni sono stati all’insegna del primato del privato. Ora si tratta di incunearsi dentro lo sfaldamento, ancora molto parziale, di tale egemonia, non per tornare al passato, ma per iniziare a ipotizzare una nuova sfera pubblica costruita dall’alto e dal basso, capace di affidarsi anche a nuove generazioni di quadri aziendali che provino a sperimentare nuove produzioni ed ecologia, dentro una cornice fatta di controllo e partecipazione popolare, di pianificazione e di comune. Tutto molto complesso, ma di facile oggi non sembra esserci nulla a portata di mano.