Cresce la “Coalizione” anti-Isis guidata da Washington – ieri si è aggiunta la Gran Bretagna – e proseguono i raid aerei in Iraq e Siria. L’enfasi che gli Usa mettono sulla “lotta al terrorismo” è notevole ma i risultati dei bombardamenti appaiono modesti. I colpi inferti ostacolano ma non fermano i miliziani agli ordini dell’emiro dell’Isis, Abu Bakr al Bahgdadi, che continuano ad avere appoggi dalle popolazioni sunnite. Le bombe del Pentagono non possono molto contro una ideologia che ha messo radici in Iraq grazie anche, aggiungiamo noi, ai finaziamenti ricevuti da anonimi cittadini delle petromonarchie filo-occidentali del Golfo (che ora “combattono” contro l’Isis).

 

In Siria l’ultima “ondata” di attacchi, oltre a prendere di nuovo di mira giacimenti e raffinerie ha distrutto quattro carri armati dei jihadisti a sud-est di Dayr Az Zor. Altri 10 raid sono avvenuti in Iraq, vicino a Kirkuk, a Baghdad e Al Qaim, dove sono stati colpiti veicoli armati e tre jeep. Davvero poco e, infatti, i jihadisti hanno guadagnato altro terreno attorno alla cittadina di Kobane, a ridosso della frontiera turca. I bombardamenti fanno il solletico all’Isis e ricompattano le organizzazioni più radicali (al Qaeda ora preme per la ricucitura con al Baghdadi).

 

Emerge perciò sempre più evidente il vero disegno che hanno in mente a Washington e in diverse capitali arabe. L’opposizione siriana, che per tre anni ha invocato l’imposizione di una zona “no-fly” sulla Siria per sottrarre alle forze armate governative la superiorità aerea, non ha forse ottenuto, indirettamente, ciò che voleva? La campagna aerea avviata dagli americani in tutto il nord in Siria – che potrebbe durare anni (lo diceva Cameron ieri) – impedisce all’aviazione siriana di sorvolare, o anche solo avvicinarsi, a una porzione vasta, più o meno la metà, del paese. Perduto quel vantaggio, per le forze governative siriane sarà ancora più arduo riuscire a mantenere le ultime posizioni che hanno in quelle zone. E visto che tutti sanno già che i jihadisti non saranno mai cacciati via, realmente, da quelle aree, ne consegue che in futuro la cosiddetta opposizione “moderata” siriana dovrà governare le zone “liberate” assieme a loro. Sarà la “Siria 2.

 

Per giorni le televisioni hanno riempito le nostre case con immagini dei bagliori delle esplosioni a Raqqa (la “capitale” del califfato dell’Isis), di automezzi e blindati distrutti, della sorridente donna-pilota degli Emirati che bombarda i cattivi, dell’eroico principe saudita che partecipa ai raid. Passata la sbornia mediatica, i leader arabi tengono a fare sapere che l’obiettivo vero era e resta la caduta di Assad. Dopo il ministro degli esteri saudita Saud Al-Faisal, ieri è stata la volta dell’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani. «Occorre contrastare il terrorismo che a mio avviso è alimentato dal regime siriano e dobbiamo punire questo regime», ha ammonito. Sauditi e Qatar per tre anni hanno riempito la Siria di fanatici legati al salafismo e al wahabismo e accusano Damasco di essere responsabile della crescita dell’Isis.

 

Siamo alla fine del gioco, scriveva ieri Michael Young, editorialista del Daily Star di Beirut noto per i suoi attacchi al vetriolo ad Assad, Iran e Hezbollah. «Applicando la stessa logica, come in Iraq – ha spiegato – gli americani potrebbero concludere presto che solo un governo più inclusivo in Siria può consolidare i progressi fatti contro l’Isis. In Iraq, l’obiettivo era quello di portare i sunniti nel processo politico, nella convinzione che siano necessari per sconfiggere ISIS, e per farlo l’amministrazione Obama ha contribuito a rimuovere il primo ministro Nouri al-Maliki. Perché in Siria dovrebbe essere diverso?».