Cosa può succedere quando New York diventa lo sfondo su cui agisce la fantasia di una personalità singolare? Nel caso specifico, una figlia di immigrati ebrei russi, capace di gestire, con disinvoltura, la sua americanizzazione e l’eredità yiddish. Le carte della signorina Puttermesser (traduzione di Elena Malanga, La Nave di Teseo, pp. 339, € 19,50) è il quarto romanzo (in realtà cinque storie collazionate) della quasi novantenne Cynthia Ozick, già ben nota per il Rabbino di Stoccolma e il racconto Lo scialle – il suo indiscusso capolavoro. Racconta, con humor e ironia, la vita (una «pseudo-biografia») di una donna coltissima, emancipatasi dal Bronx antisemita degli anni trenta fino a conquistare, come avvocato, posizioni di riguardo (non di potere) nei torbidi gangli municipali della New York di metà Novecento. Posizioni troppo di riguardo per una donna, a quel tempo, tanto più per una donna ebrea e molto intelligente.

A trentaquattro anni l’impareggiabile Ruth Puttermesser (il cui cognome rimanda a un inoffensivo «coltello da burro»), che nel frattempo si è trasferita nel più distinto West Side di Manhattan ma paradossalmente ha continuato a studiare cultura ebraica presso lo zio Zindel morto trent’anni prima, si ritrova costretta da un precoce «demansionamento» a rimuginare sui mali di New York.

In attesa di un riscatto dall’ingiustizia, cerca di dedicarsi ad altro. Prende a cuore la situazione degli ebrei in Unione Sovietica (in era maccartista e di Guerra fredda!), intrattenendo una svogliata relazione con Morris Rappoport, un fundraiser canadese. La loro storia finisce quando una sera lei decide che vuole continuare a leggere il Teeteto di Platone, si può supporre il passo in cui Socrate parla della madre levatrice, dalla quale il filosofo ha imparato l’arte della maieutica: l’arte del partorire anime e portarle maieuticamente alla verità.

A questo punto, la biografia di Puttermesser cambia marcia. Pochi inconsapevoli movimenti intorno al letto, un suo confuso balbettare lettere ebraiche (alef, mem, tav: verità), e d’improvviso l’appartamento subisce uno scompiglio. Puttermesser si gira, e nel suo letto scopre una ragazza nuda, forse una prostituta – pensa – calatale in casa non si sa da dove. La ragazza ha qualche imperfezione fisica: Puttermesser le sistema un po’ il naso, le allarga le narici, e poi si accorge che tutte le piante del suo appartamento sono sradicate, le finestre rispecchiano un groviglio di racemi tropicali e il terriccio che li nutriva è sparito.
Cosa ha fatto Puttermesser? Lei, dotta com’è, lo intuisce quasi subito: ha forse inavvertitamente creato un golem con l’argilla delle piante, ha forse dato forma al primo golem americano, per di più – cosa rara – di genere femminile? Forse sì. Perché la creatura quindicenne appena nata e risciacquata adesso si muove, si veste e prova a comunicare ma non ha la parola: è un essere muto, come tutti i golem della tradizione ebraica, in particolare, quello creato nel Cinquecento dal rabbino di Praga, Jehuda Löw, con il proposito di salvare gli ebrei della sua città da diffamazioni e leggi ingiuste, riuscendo nella difficile impresa fino a quando la creatura magica, assunte misure spropositate, dovette essere, per via altrettanto magica, eliminata.

Puttermesser ha forse inconsciamente creato la sua Santippe (questo è il nome che il golem si attribuisce) per gli stessi fini? Ripulire New York, come a suo tempo il rabbino Löw aveva ripulito Praga «dal male e dall’infamia»? Praga, una città che – riflette Puttermesser – si distingueva allora (citando con anacronismo Walt Whitman) «per innumeri strade affollate, alte strutture in ferro fatte di alberi maestri e guglie» (City of Ships), scoprendo così che «il seme di New York covava già in terra europea» e nel Cinquecento la «vecchia, delicata Praga, pulita e ripulita dal peccato, partoriva l’alba purificata, l’ingegno sommo e lucente di New York!». Come a dire che, prima della sua luciferina caduta nel male, New York era un parto lontano della Praga ebraica.
Divenuta sindaco integerrimo con l’aiuto di Santippe, Puttermesser restituisce New York alle sue presunte origini, ovvero a un’improbabile e surreale città «lavata, riformata», anzi «redenta»: un «paradiso», ma è un paradiso spento, si accorge Puttermesser, un paradiso come tanti altri, insignificante, devitalizzato. New York ha perso la sua anima vorticosa, la fluida magia delle sue folle indaffarate e multiformi, quelle già cantate un secolo prima da Whitman. Insomma, New York non è più New York. Senza pensarci due volte, magicamente Santippe torna ad essere fango, fango putrescente. Il golem, angelo custode degli ebrei in difficoltà, ha di solito vita breve: crescendo finisce col combinare guai.

Sorniona serietà e arguta parodia si mescolano nelle carte sapienziali di Cynthia Ozick, dove realtà, dottrina, fantasia, comicità non si scollano, anzi si amalgamano in una saga mercuriale nel cui impasto – forse fin troppo ricco – ribolle, con l’ingegno luminoso e corrotto di New York, la fantasmagoria dettata dalla legge di sopravvivenza propria della Mitteleuropa ebraica, senza che nel processo di trasmutazione venga meno l’agitarsi di una mente problematica, un’etica sulla natura del raccontare storie. Nelle scintille provocate dalla frizione tra due diversi modi di interpretare il rapporto creazione-artificio-mondo nasce il paradosso in cui vive Puttermesser. Defenestrata dal suo ufficio, il lettore ne seguirà la vita sconclusionata nei decenni successivi: nel suo colto flaneurismo per percorsi newyorkesi; o nell’avventurosa ricerca di un marito, perseguita tramite una mimetica e cannibalesca appropriazione della vita di George Eliot; o nell’esilarante incontro con una sua lontana cugina, figlia della Russia della Perestroika, travolta, come il golem prima di lei, dal piacere disinibito del consumismo affarista.

Sì, è vero, come recita il risvolto di copertina, questo romanzo è «un vero e proprio luna-park letterario», godibilissimo per tutti e per pochi. Ma attenzione: il raccontare storie, sostiene altrove Ozick, «è una sorta di arte magica. O di eucarestia, per cui il pane quotidiano del linguaggio assume la forma di un dio». Insomma, è come un creare «idoli». E nella Scrittura gli idoli sono opera «demoniaca». È qui il paradosso che – più di Puttermesser, creatrice del golem – Ozick vive con tormentata coscienza etica (rispetto alla sua religione) e artistica (rispetto alla libertà del proprio estro letterario).
La vita di Puttermesser non può che avviarsi verso una preordinata conclusione (nomen omen): finirà accoltellata e poi stuprata nel suo letto, per poi volare in un noioso Paradiso fuori del tempo, fuori della Storia (oppure troppo dentro la Storia?): «Puttermesser, il cui nome non ammonta a nulla di più morbido di un coltello da burro, cammina fra la cenere bianca del Paradiso, lei stessa un’ombra che non ne getta alcuna, e brama la mera terra verde». Forse, si può supporre, quella del Central Park di New York, dove inferno e un più movimentato paradiso convivono, tutto sommato, abbastanza in accordo con quella che è la realtà.