In pochi credevano, dopo il Festival di Locarno 2017, in cui vinse il Pardo d’argento per la miglior regia, che 9 Doigts (9 Dita) di F.J. Ossang si sarebbe mai visto in Italia: fosco, catramoso com’è, cargo perso in spazi problematici di non-senso. Eppure in questi giorni Ossang è in viaggio in Italia per presentare il suo film, grazie alla distribuzione congiunta di Rodaggio Film e Reading Bloom, quest’ultima già protagonista qualche mese fa della diffusione in Italia di un altro bianco e nero fortemente espressivo come Still Recording.

MA QUELLO di Ossang è un impasto di cenere e fumo, come eruttato dal centro di Nowhereland, l’isola a cui la nave sembra destinata, e diffusosi per tutto lo spazio del film, sotto forma di cirrostrati di pece che gorgogliano di musica elettronica, di noise, con venature industrial. E si mischia, questo bianco e nero, con il grigio di lamiera, di metallo bisunto del bastimento, per coprire irrimediabilmente il cielo e la pupilla lunare che prima era spalancata a scrutare, sonnambula, l’intrigo del noir che si snoda, anzi si decostruisce nell’intrico delle cabine.

Un bianco e nero in celluloide, secondo abitudine di Ossang giunto al suo quinto film in trentacinque anni (il che accresce il mito di un regista tanto appartato quanto anarchico, irriverente, colto), a fronte di un certo numero di dischi e libri a sua opera, che sono il supporto fondamentale del suo cinema. Ad esempio in uno dei colloqui tra il protagonista Magloire (Paul Hamy) e Ferante (uno straordinario Pascal-Charles Greggory), che si svolge all’interno di una cabina adorna di accrocchi e librerie, viene citato prima lo scrittore argentino Roberto Arlt a proposito di pazzi, cinici e geni che restano inoperosi, poi Raymond Roussel di cui vengono sottolineati data e luogo di morte, 14 luglio 1933, a Siracusa, quasi a voler dichiarare alcuni dei referenti letterari della poetica di Ossang, tra onirismo, surrealismo, straniamento.

Ma Roussel morì a Palermo, non a Siracusa: e la cosa fa pensare a un ulteriore, beffardo gesto di sovvertimento delle mappe (come la cartina nella cabina di Kurtz: sorta di miscuglio di macchie, di placche non riconoscibili), di stravolgimento dello spazio, condotto dal regista in nome di un principio di spaesamento che è, diviene, tutto cinematografico, vaneggiando di un’isola mobile e cangiante che non è alcun luogo se non lo spazio-tempo del cinema, dispositivo di infinite permutazioni, di conturbamenti, di giri a vuoto. Ecco, l’impressione è di una programmatica inconcludenza della trama, o, meglio, delle trame, come fosse la dimostrazione del galleggiamento nel mare del contemporaneo, di innumerevoli narrazioni che aprono spiragli alludendo a un’infinita possibilità di soluzioni, tutte però sotto minaccia del nulla, del non-senso. Infatti in uno dei suoi soliloqui Magloire dice a se stesso: «Ne rien comprendre: voila la clé».

L’ACQUA, l’Oceano del nulla – già prefigurato all’inizio del film attraverso ondate schiumanti su una spiaggia, poi in un acquario di squali-martello, e torbidi specchi d’acqua qua e là, in cui i lineamenti del volto si deformano e si cancellano – preme ai margini di questo vascello-fantasma cercando di cancellare quel che resta di questo grumo cinematografico, di questa ennesima avventura, sgranatasi tra Conrad e Salgari, Solaris e Stalker. In effetti l’isolamento e la dispersione dei personaggi nella pancia di questo bateau ivre, il loro rimuginare e apparire all’improvviso nelle cabine altrui, con il proprio carico di rimorso e di follia, sono quelli di Solaris, pur sfondando le plaghe fumide di oceani che ora sembrano sibilare un nonnulla.

Ma a voler cercare ancora i tanti referenti di 9 Doigts, ci si imbatte ad esempio nel Castello di Kafka (altro modello primevo di una scrittura onirica, paradossale), La peste di Camus, per non dire di tutto un repertorio di genere che attinge tanto, ovviamente, al noir quanto alla fantascienza; in una forma rimbombante (come se alle spalle dei protagonisti incombesse l’eco del vuoto, del buio), una forma teatrale, claustrofobica, da vecchio sceneggiato; fino al punk finale, come frutto di una nuova energia di cui andava vagheggiando Ferante, che sembra lo scarto vitale, a cancellare il cinismo («il cinismo ci distrugge, ci fa ammalare»): perché «è la gioia che restituisce l’istinto della purezza».