C’è un fantasma rimosso alle spalle dell’ultima orrenda e incommensurabile strage di Lampedusa: il fantasma della Kater i Rades, la piccola motovedetta albanese carica di uomini, donne e soprattutto bambini, affondata dopo essere stata speronata da una corvetta della nostra Marina Militare impiegata in operazioni di harassment, cioè dissuasione e respingimento. Era il 28 marzo del 1997, la sera del Venerdì santo.
La strage del Canale d’Otranto, già evocata in questi giorni sul manifesto da Tommaso Di Francesco e da Alessandro Dal Lago, costituisce uno spartiacque nell’italica percezione dei viaggi dei migranti e della protezione dei “sacri confini”. Fu la prima grande strage avvenuta davanti alle nostre coste (anche se il numero accertato di 81 vittime tra corpi ritrovati e corpi tuttora ufficialmente dispersi, comunque esorbitante, rischia di impallidire di fronte all’ultima ecatombe di Lampedusa).
Non fu una strage causata da eventi “naturali”. Come in parte accertato da un lunghissimo e complicato processo, il cui terzo grado deve ancora avere inizio in Cassazione, le responsabilità dell’impatto furono tutte della nave militare italiana e gli ordini (benché i nastri delle comunicazioni tra comandi di terra e flotta in mare siano risultati stranamente “vergini”) furono impartiti dall’alto. Al governo c’era l’Ulivo, e il paese era attraversato dalla fobia dell’invasione.
L’intreccio tra clamore mediatico per le vittime e volontà di continuare a praticare le politiche di respingimento nacque allora. Tale schizofrenia nazionale, che non è solo appannaggio della xenofobia leghista, ci accompagna da oltre sedici anni e ammanta oggi gli stessi discorsi dei maggiori esponenti del governo delle larghe intese. In un certo senso, Frontex è solo la raffinata evoluzione del brutale “blocco navale” attuato nel marzo del 1997 nel Canale d’Otranto di fronte al caos albanese. Nei confronti del caos nord-africano, l’Italia e l’Europa hanno riprodotto su scala più vasta, e solo apparentemente dissimulata, la stessa formula.
Anche allora, mentre si sosteneva la necessità di presidiare le frontiere, rendendo di fatto più pericolosi i viaggi e nascondendo le loro cause sociali e geopolitiche, si chiedeva a gran voce il Nobel per la Pace per il Salento.
Ma le similitudini purtroppo non finiscono qui. Anche oggi, come nel caso della Kater i Rades e della Yohan affondata nel dicembre del 1996, c’è una stiva ancora piena di corpi in fondo al mare. È probabile che a riempirla siano in gran parte donne e bambini, perché è lì, sotto coperta, che solitamente trovano riparo nelle lunghe ore dei viaggi.
Ancora una volta c’è una nave-bara. Ci vorranno giorni, o settimane, o mesi, per tirarla su. E altri giorni, o settimane, o mesi, per identificare le salme una per una, per dare un nome a ogni volto congestionato dall’asfissia, sempre che si voglia portare a termine questa complicata operazione. Quando l’improvviso clamore mediatico sarà scemato, tornando a essere ciò che in genere è (silenzio e indifferenza), i corpi non identificati saranno ancora lì.
A segnare le tragedie in mare non c’è solo la “globalizzazione dell’indifferenza”, di cui ha parlato il papa nella sua visita pastorale a Lampedusa: c’è anche l’indifferenza della morte. L’indistinto accatastarsi dei morti sotto il mero conteggio numerico. Per romperne la cappa, oggi come per tutte le stragi, andrebbero invece ricomposti i corpi e le storie dei morti preservando l’individualità di ognuno, il suo nome, le sue aspirazioni, i suoi sogni, le sue sconfitte. E andrebbe capito, come per la Kater, che coloro i quali sono miracolosamente sopravvissuti al naufragio, e allo stesso modo i parenti delle vittime rimaste nei paesi di partenza, non supereranno mai il buco nero del naufragio. La strage continuerà a velare le loro vite, anche se dagli effetti umani del dopo-naufragio, come di ogni dopo-naufragio, il dibattito politico non sarà minimamente