Stranezza della lingua scritta di Camilleri: com’è possibile che la lingua di Vigàta sia la stessa della Sicilia degli anni Trenta? Eppure lo è. Il camilleriano non è una miscela di italiano e dialetto, o un italiano dialettizzato: non c’è quell’«afrodisiaco dialettale» che fu criticato nel neo-realismo letterario, né l’infinita derogazione della lingua all’interno di sognate architetture del Pasticciaccio di Gadda.
Sul fondo oscuro di un idioma che non è né siciliano né italiano, Camilleri innesta due diverse operazioni: svuota la lingua di termini e strutture, per poi riempirla con termini e frame sintattico-grammaticali siciliani; al posto dei vuoti ci sono dei pieni di non facile decodifica, che però il lettore può saltare senza ricorrere al dizionario, grazie al senso che viene formandosi nel complesso del periodo: è l’enunciato nella sua interezza, non il nome o la concatenazione nome-verbo, a far germinare la significazione.

Fra le strutture mancanti c’è il periodo ipotetico, del quale il dialetto siciliano è privo: Camilleri è costretto a un certo equilibrismo per far operare, all’interno di una struttura linguistica che esiste per dire che le cose sono come appaiono, cioè come sempre sono state e sempre saranno, una logica induttiva, che presuppone l’esistenza di un’ipotesi. Un mondo possibile alternativo alla mera grammatica delle cose percepite. In questo conflitto fra ciò che non vuole essere diverso, e ciò che dovrebbe (potrebbe? vorremmo?) essere diverso, si sviluppa la lingua camilleriana. Forzata sul lato del dialetto, dice la dura necessità che porta le vicende a finire come dovevano finire: la lingua diventa totalitaria e totalizzante, e rifiuta la rottura della regione unica che corpo e sensi cercano di operare. Spinta sul lato dell’italiano, riesce a dire la possibilità di un mondo diverso: un mondo nel quale Montalbano è finora riuscito a riportare quel minimo di giustizia che gli è consentito, nella consapevolezza – per citare Manchette – che «può raddrizzare qualche torto, ma non raddrizzerà mai l’iniquità complessiva di questo mondo, e lo sa; di qui la sua amarezza».

Il villain, nel giallo classico, è il riempimento di un significante vuoto; nel noir è attraversato dalla composizione di classe della società, con le sue ingiustizie e segmentazioni. Il giallo considera il male una perturbazione temporanea, e non mette in questione la bontà dell’ordine sociale; il noir punta il dito sull’ingiustizia che permea lo stato di cose esistente, e ne permette, quantomeno, di pensare la sovversione.
Montalbano è, sin dall’origine, un personaggio del noir: le sue manìe, le sue particolarità sono coerenti con la presa di distanza dalla tipizzazione che Camilleri cerca di immettere nella sua creatura, pur rimanendo sempre sull’orlo della tipicità.
Camilleri ha spesso giocato col noir, salvo risolverlo poi nelle maglie del giallo; a partire da La vampa d’agosto la possibilità del noir diventa realtà: non c’è riconciliazione in un mondo senza giustizia. La funzione degli esseri umani è, nella visione di Camilleri, quella di «scassare i cabasisi all’universo creato»: di lordare la bellezza della natura. Fosse riposta in qualche angolo un barlume di provvidenza, potremmo parlare di concezione creaturale della natura. Ma dio non c’è, forse non c’è mai stato, né a Vigàta né altrove: anche qui siano sull’orlo del noir, ossia del tragico.
Il mondo non è uno sfondo sul quale si muovono le figure, ma natura viva, dinamica, dalla quale scaturiscono i personaggi e che dai personaggi è percepita, rappresentata, vista, odorata, assaporata. La natura, con la sua bellezza, è in qualche modo il modello a cui si ispira un poliziotto che non riesce più a trovare nelle gesta degli uomini giustizia: ci fosse un dio, questa natura sarebbe rifugio, consolazione, conciliazione. Speranza che nega l’oggi per attendere il domani.

Ma così non è: la stessa natura che si manifesta come bellezza può esprimersi come mostro, come regno dell’informe e dell’orrido, come brulicare di vita scaturente dagli inferi – topi, scarafaggi.
Identificare il male nelle sue manifestazioni, e ricondurre queste a un unico centro irradiantesi, è facile, consolante e soprattutto auto-assolutorio: che si tratti del Maligno o della Mafia, l’origine del male non ci tocca. Camilleri va più a fondo: alla base del male c’è la capacità e la volontà di fare il male, cioè la lordura che l’uomo immette con suo agire nel mondo. Se il male è creazione dell’uomo, non esito di un’inconoscibile o intangibile origine, allora il male ha una causa e una ragione: è riconducibile alla concreta materialità delle relazioni sociali. Il noir è la rappresentazione dell’intera società nella più alta potenza del falso (Deleuze): il colore dell’universo creato dal passaggio dell’uomo.