Quando è nata l’Europa, o meglio il concetto d’Europa? Non nell’alto medioevo e tanto meno al tempo di Carlo Magno, per molti padre della patria europea. Si tratta, sostiene Chris Wickham nel suo L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 (Laterza, pp.756, euro 38 euro), di costruzioni postume: nel corso dei secoli precedenti all’XI, fra Inghilterra e Sicilia, fra Boemia e penisola iberica nulla portava a riconoscere tratti comuni. Anche nell’ambito di regioni ugualmente convertitesi al cristianesimo, gli elementi di distanza (culturale, sociale, politica, linguistica) erano di gran lunga maggiori rispetto a quelli comuni.

Per contro, è opinione di molti storici che il periodo altomedievale non avrebbe fatto altro che raccogliere l’eredità di Roma, in una linea di continuità priva di brusche interruzioni con il tardoantico. Romàioi (in greco, letteralmente, «romani») erano d’altronde coloro che abitavano le terre soggette all’impero bizantino, che tanto gli europei occidentali quanto gli arabi chiameranno appunto così (Romània nel latino medievale, da cui anche i termini che in italiano indicano la «Romanìa» e la «Romagna»; e Rum in arabo). Nei secoli altomedievali, i rapporti fra Bisanzio e l’Europa latino-germanica furono altalenanti.

Un grave momento di rottura si ebbe verso la metà dell’XI secolo, quando Roma, dall’intesa con i bizantini contro i normanni italomeridionali, che all’epoca minacciavano militarmente la stessa Costantinopoli, cambiò alleanza passando dalla parte dei normanni. Su tale sfondo politico nel 1054 si consumò lo scisma fra le due Chiese, che ebbe come motivazione ufficiale una questione teologica (la disputa sul filioque) e, soprattutto, il fatto che ormai a Occidente si andava elaborando la dottrina del «primato di Pietro», cioè del vescovo di Roma, sulle altre sedi patriarcali (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme) e quindi della sua egemonia sull’intera Chiesa, mentre i bizantini si mantenevano fedeli alla tesi d’una Chiesa conciliarmente guidata dai vescovi e strettamente controllata dal loro imperatore.

Secondo i «continuisti», la «caduta dell’impero d’Occidente» (come ordinariamente si usa chiamarla) non mutò granché delle effettive strutture profonde del mondo antico e poco incise sulle stesse istituzioni periferiche e municipalistiche, le quali sopravvissero più o meno a lungo e in molti casi – come nella penisola italica o nella Gallia del sud-est, la Provenza (dal latino Provincia) -, più che propriamente scomparire, andarono facendosi gradualmente meno visibili, ma si modificarono e restarono in qualche modo in vita fin a «risorgere» fra IX e X secolo: e tornano qui le contrapposte tesi della «continuità» e della «discontinuità-rottura». Secondo tale interpretazione, si può dire che quella del 476 in Occidente sarebbe stata – come l’ha definita un grande storico dell’antichità, Arnaldo Momigliano – «una caduta senza rumore».

Wickham non sposa una teoria o l’altra, non è né un «continuista» né un fautore della «rottura» a tutti i costi. Osserva tuttavia che le storie onnicomprensive dei secoli altomedievali (quelli che una parte della storiografia anglosassone indica ancora come Dark Ages) non sono molte, e soprattutto non sono recenti. Ecco allora che la sua Storia d’Europa dal 400 al 1000 riempie questo vuoto, e lo fa prendendo in considerazione in modo dettagliato, tanto in senso spaziale quanto in modo cronologico, gli scenari di quell’epoca. I territori della pars Occidentis dell’impero e le loro mutazioni post 476, il Mediterraneo bizantino, l’Europa musulmana, l’età carolingia e post-carolingia.
In ognuno di questi ambiti spazio-temporali si analizzano le tendenze della storiografia, mai però a discapito di una narrazione adatta anche ai non specialisti; così come l’ampia bibliografia di fonti e studi è uno stimolo, mai una barriera. Dalla lettura de L’eredità di Roma si esce dunque più informati e più aggiornati su un periodo tra i meno noti e considerati della storia di ciò che c’era prima (rifiutando Wickham l’idea di «radici») dell’Europa.