La trama e la forma sembrano semplici: si tratta di una indagine su un delitto di provincia, secondario se non marginale, per una vittima come tante, abitudinaria, quella ai margini delle discoteche e dei locali notturni, dove un ragazzo, Emanuele, è stato ucciso da un branco per niente dopo un diverbio da niente, in un vuoto di occasioni che invece del nulla ormai produce morte. Ma non è così, non è un romanzo d’investigazione né un noir quello che ha elaborato Daniele Vicari, regista di tanti film che hanno ormai fatto scuola sempre proponendo un punto di vista fondativo, una specie di prima volta da cui è impossibile non partire.

Emanuele nella battaglia (Einaudi, pp. 366, euro 20) prima opera letteraria di Vicari è una sorta di monumento alla «non verità», all’impossibilità di testimoniare una rivelazione credibile sulla violenza del reale, diventato a così troppi strati da pretendere più che un racconto mediatico uno scavo archeologico che comunque rischia anch’esso la superficialità stratigrafica. Perché, alla fine, diventa necessaria la ricopertura, proprio come per una vestigia antica da difendere ma inutilizzabile al momento.

SE NON È UN ROMANZO, né un noir, né un racconto, né un reportage alla fine che cos’è questo abile manufatto di parole che sfugge alla catalogazione? Daniele Vicari sembra conquistato da due forme narrative sorprendenti. Una richiama il Mao Zedong del «chi non ha fatto l’inchiesta non ha diritto di parola»; l’altra George Simenon, il primo Simenon, quello che decide di attraversare la provincia profonda francese negli anni Venti del secolo scorso per capire la natura dei personaggi che sente dovere rappresentare, quasi a voler vivere negli stessi luoghi. È dunque, anche per Vicari, un rapporto necessario con il reale e insieme una ricerca di sé. Con in più la turbativa dell’omicidio che lo chiama direttamente in causa e che lo porta ad immedesimarsi con la vittima e con la famiglia della vittima, in primo luogo con la sorella Melissa, la vera testimone del dolore per la perdita di Emanuele e per l’impossibilità di raggiungere la verità.

Anche perché qui non siamo di fronte ad un delitto dichiaratamente politico, con una responsabilità del potere o delle forze dell’ordine, insomma non è la stagione ancora collettiva della Diaz e nemmeno il crimine che ha ucciso Stefano Cucchi. Qui la morte è data all’interno degli schemi sociali e affettivi, mostrando che è una sorta di guerra civile non dichiarata che si consuma nelle stasi del tempo di vita, nei luoghi delegati alla distrazione da un presente invivibile, dalle discoteche agli incroci stradali.

A SOLLECITARE l’attenzione dell’autore è la scoperta, dopo un diluvio di agenzie stampa finto-neutrali sul delitto che allontanano piuttosto che avvicinare la verità, della conoscenza diretta della vittima, un ragazzo allegro e attento che veniva a caccia dalle sue parti, nel reatino. Da una provincia all’altra, insomma. Visto che il delitto si consuma ad Alatri, in Ciociaria, nel frusinate. Le periferie sono tutte eguali, il mondo stesso è periferizzato in una moltitudine di condizioni minimali, impercettibili: nei ghetti americani, nelle ronde francesi dei gilet jaune, snodi predestinati al consumo delle merci, nei mega-centri commerciali, nei bar e nelle discoteche appena fuori dai centri abitati. Lì c’è la stessa perdita di orientamento globale e il medesimo coinvolgimento nelle pieghe del mondo. Lì Emanuele Morganti, ragazzo di 20 anni di Tecchiena, il 25 marzo del 2017 è stato assassinato dopo una serata in discoteca davanti a decine di persone. Proprio mentre l’autore, che vuole sapere per testimoniare, si coinvolge emotivamente va in onda una sceneggiatura apparecchiata, mediaticamente granguignolesca, di finte verità, trasmissioni in diretta concorrenti, con testimoni inverosimili ma finalmente protagonisti.

COSÌ MENTRE i morti ammazzati sottocasa dilagano nelle «battaglie» serali tra giovani, Daniele Vicari si fa interprete nel suo immaginario della somma dei messaggi che arrivano nello stesso cortocircuito del quale è stato vittima Emanuele: l’infamia dell’uccisione e quella dell’informazione, nell’indifferenza sostanziale, umana, verso la sua storia. E questo perché «è proprio la realtà reale in cui è finito Emanuele che è stata messa in discussione negli ultimi decenni – scrive Vicari – a favore della sua riproduzione sempre più lontana dai fatti della quotidianità ritenuta noiosa e ripetitiva».

A scuoterlo sull’orlo del vuoto che la somma stratigrafica del reale ormai rappresenta sono non a caso proprio le parole di Melissa, la sorella di Emanuele, costretta nella pena e nel dolore con il peso addosso dell’esterno inesprimibile, e diventata a sua volta solidale testimone saggia delle incertezze dell’autore: «A me Danie’, non mi sono mai piaciute le serie tipo Romanzo criminale e Gomorra, so’ tutti fichi, tutti forti, tutti vincenti pure se so’ assassini e schiattano tutti, mah…».

L’insidia della serialità minaccia l’epifania degli avvenimenti, la verità del sangue finto versato oltrepassa quello delle vittime in carne ed ossa. Perché ormai nella marginalità del mondo periferico, si riproducono in fotocopia le stesse interpretazione seriali con i canali tv locali che mandano in onda sottoprodotti delle narrazioni ufficiali della violenza. Un canale frusinate manda in onda Uomini di rispetto, che è l’adattamento, proprio rispetto alla storia locale, del più ufficiale Romanzo criminale.

Arriva alla fine il cinema come soccorso. Ma è davvero una fortuna o un «brutto scherzo»? Daniele Vicari rammenta a se stesso che quella realtà ha prodotto l’esperienza di scrittura di tre grandi ciociari dell’immaginario cinematografico, Vittorio De Sica (originario di Sora) Beppe De Santis (di Fondi) che proprio da quel territorio elaborò il film Non c’è pace tra gli ulivi, e Cesare Zavattini che studiò e visse ad Alatri da giovane come racconta nella sua Io, un’autobiografia.

Quelle furono tre esperienze, dal locale all’intera crisi sociale di un Paese, fondative del linguaggio del neorealismo, e la sensibilità degli autori, tra molti limiti però, denunciava ed esaltava il protagonismo degli ultimi. Quel linguaggio e quel ruolo oggi sono irriproponibili, «non siamo all’altezza», suggerisce Vicari: limitiamoci allora a «scoprire» chi è l’assassino di turno. Ma la periferizzazione della realtà, come ben aveva intuito Pier Paolo Pasolini, ha ormai omologato da decenni le esperienze di vita e i comportamenti.

OGGI SCOPRIAMO, disperati, che ad essere omologati e azzerati sono anche i linguaggi che fin qui abbiamo conosciuto e usato; e che l’organizzazione della vita e la promessa di felicità restano ormai racchiuse negli automatismi dei media, dei software, degli hardware, degli smartphone, degli algoritmi. I simulacri hanno preso il posto dei rapporti reali, mentre i crimini in carne, ossa e sangue continuano, sotto casa, sempre più vicini, come una coazione a ripetere.