Alla fine del 2016, Ossigeno per l’informazione ha pubblicato il dossier Taci o ti querelo. Si tratta di un esaustivo rapporto sugli effetti delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa in Italia. Finalmente è possibile dire quanti sono, quanto durano, quanto costano, come si concludono, i procedimenti che si svolgono ogni anno per accertare la colpevolezza o l’innocenza di chi è accusato di diffamazione.

Sono cifre ufficiali. Provengono dall’Ufficio statistiche del ministero della Giustizia. I dati fanno impressione. Ecco che cosa ha prodotto nel 2015 nel nostro Paese la legge che il Parlamento si ostina a non correggere: 103 anni di galera, 5.125 querele infondate (il 90% del totale), 911 citazioni per risarcimento, 45,6 milioni di richieste danni, 54 milioni di spese legali, 2 anni e mezzo per essere prosciolti, 6 anni per la sentenza di primo grado. Nel biennio 2014-2015 soltanto l’8 % dei procedimenti penali definiti ha concluso l’iter con la condanna dell’imputato mentre per l’87 % dei casi i giudici hanno prosciolto il giornalista imputato. Dunque, ogni anno vengono definite una montagna di querele (5.902) e questa montagna produce un topolino: 475 condanne, delle quali 320 al pagamento di multe e 155 a pene detentive.

Il fatto che soltanto una percentuale esigua di denunce sia convalidata da una sentenza significa che molte querele contengono accuse infondate, esagerate. Significa che tante accuse sono pretestuose, formulate strumentalmente, presentate per ragioni che non hanno niente a che fare con la tutela della reputazione. Sono querele «temerarie» e, dunque, veri e propri abusi del diritto. Questi abusi fanno girare la macchina della giustizia a vuoto, la ingolfano, la trasformano in uno strumento di ricatto, in un bavaglio per giornali e giornalisti. Dietro i freddi numeri della statistica si celano storie vive di intimidazioni e censure, di cronisti, editori, opinionisti, operatori dell’informazione, che non dovrebbero esser indotti a tacere certe notizie per paura o timore di rappresaglie fisiche o giudiziarie.

A Cosenza la storia del sito Iacchite’ rende ancor più ingarbugliati i confini tra diritto di cronaca e tutela della persona. Mafiosi, politici, magistrati e imprenditori raccontati come nessuno aveva mai fatto prima. Personaggi pubblici esposti ogni giorno alla «gogna» internautica per le loro presunte malefatte. Iacchite’ in cosentino è un’espressione di stupore dinanzi a una notizia. Da due anni è anche il nome di un quotidiano on line che ha costretto la polizia giudiziaria cosentina ad aprire un ufficio ad hoc per la notifica di querele e procedimenti. I politici hanno arruolato eserciti di avvocati e di hacker per fermare il sito.

La procura ha già oscurato la testata una volta, arrivando a convocare in tribunale, in qualità di «persone informate sui fatti», gli utenti che su Facebook hanno assegnato un like ai loro articoli. Non c’è stato niente da fare. Iacchite’ insiste e resiste nel web. Sebbene i suoi due animatori, Gabriele Carchidi e Michele Santagata, abbiano accumulato un numero di denunce da guinness dei primati e da un momento all’altro potrebbero finire in carcere per uscirne solo tra qualche anno, loro vanno avanti spavaldi.

Ogni mattina nel garage in cui lavorano si assiste a un viavai di carabinieri e poliziotti che notificano atti giudiziari. In primo grado, qualche condanna è già arrivata. Numeri da brividi: in totale Carchidi e Santagata sono stati querelati 68 volte. Nel dettaglio, 17 da imprenditori, 6 dagli avvocati, 14 dai politici (sottosegretari e consiglieri regionali e anche il fondatore di Forza Nuova, Roberto Fiore), 7 tra poliziotti e carabinieri, 15 da magistrati, 5 sono dirigenti pubblici e 4 editori e giornalisti. In almeno un caso, la procura ha ipotizzato nei confronti dei due redattori il reato di stalking digitale.

Di sicuro il clickbaiting funziona. Per essere un magazine locale, Iacchite’ è letto da una quantità impressionante di visitatori: in media 60 mila utenti unici giornalieri. Cosenza è spaccata in due. Da una parte molti sostenitori, tra la cosiddetta gente comune, che godono leggendo i cognomi di personaggi sinora mai aggettivati con tanta spregiudicatezza; dall’altra i tanti critici che accusano i cronisti di scarsa attendibilità, di uso vendicativo della scrittura.

Santagata e Carchidi sbandierano orgogliosi i banner forniti dal loro unico finanziatore: il motore di ricerca Google. Indaffaratissimo l’avvocato dei due redattori, Nicola Mondelli, impegnato a rallentare il conto alla rovescia che precede l’ormai probabile arresto di Santagata e Carchidi. Qualora si concretizzasse un provvedimento coercitivo di tale entità, scoppierebbe un nuovo caso Sallusti? E ci sarebbe altrettanto clamore da indurre il Presidente della Repubblica a concedere la grazia?