«A cinquant’anni, guardandosi allo specchio, uno si trova davanti un personaggio sul quale ci sarebbe molto da ridire», scriveva Marcello Cini nel 2001. Non fosse scomparso tre anni fa, oggi ne avrebbe novantadue, e moltissimo da ridire. Senza dubbio, il «personaggio Cini» ha ancora tanto da raccontare a chi lo la letto ieri o comincia a farlo oggi. Soprattutto, a questi ultimi risulterà utile il libro appena pubblicato dalle Edizioni ETS, Per una scienza critica. Marcello Cini e il presente: filosofia, storia e politiche della ricerca, antologia di diciannove saggi curata da Elena Gagliasso, Mattia Della Rocca e Rosanna Memoli. I contributi raccolti ricostruiscono il percorso scientifico, politico e filosofico di Cini e lo mettono alla prova su diverse questioni attuali, dalle neuroscienze alla non-neutralità del paradigma economico dominante.

Proprio sull’espressione «non-neutralità», Cini aveva una sorta di copyright. Ci sono diversi modi di criticare la scienza e gli scienziati, ma chi ne mette in discussione la «neutralità» fa quasi sempre riferimento a un celebre e stranissimo libro, L’ape e l’architetto, che Feltrinelli pubblicò nel 1976, l’editore FrancoAngeli nel 2011 e che valse a Cini la fama di «cattivo maestro».
L’Ape, infatti, è una raccolta di articoli scritti da lui, cinquantenne e affermato docente di fisica teorica alla Sapienza, e da tre giovani colleghi (Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio). Vi si sostiene che la scienza, persino la fisica teorica più astratta, sia ideologicamente influenzata dal contesto capitalistico in cui opera. Dunque, non rappresenta di per sé un fattore di progresso sociale, come invece si riteneva anche nel Pci «sviluppista».

Quella tesi fece discutere moltissimo e Elena Gagliasso, nel saggio centrale del libro, ne spiega bene la ragione. La critica di Cini e compagni individuava il ruolo che la struttura sociale svolge nella selezione dei paradigmi scientifici dominanti. Tuttavia, non cadeva mai nell’irrazionalismo, cioè nel rappresentare la scienza come un insieme di convenzioni del tutto arbitrarie o, peggio, manipolate – attacchi di questo genere, come quella di Feyerabend che paragonava la scienza all’astrologia, si erano rivelati piuttosto innocui. L’analisi dell’Ape veniva dall’interno della scienza, prendeva sul serio il lavoro degli scienziati e non risparmiava né quelli progressisti né quelli più bravi. Era una critica autorevole, quindi pericolosa.

Cini, infatti, era uno scienziato di primo livello. Ordinario a soli trentatré anni, collaborava con i migliori studiosi degli anni ’50 e ’60 sulla fisica delle alte energie. «Ma nell’anno 1968 arrivò proprio il Sessantotto», scrive Giorgio Parisi, «fu un grande sconvolgimento per tutti». Gli ultimi articoli sulla fisica delle particelle elementari sono del 1969, poi per oltre un decennio Cini si occupa a tempo pieno del rapporto tra scienza e società. Non è un addio alla ricerca pura: innanzitutto, perché negli anni ’80 ricomincia a occuparsi dei fondamenti delle teorie quantistiche. In secondo luogo, studiare la storia delle teorie scientifiche all’Istituto di Fisica di Roma non è mai stata considerata un’attività accademica «minore»: sono numerosi gli scienziati di livello internazionale che, come Giovanni Jona-Lasinio, Angelo Vulpiani, Carlo Bernardini, Francesco Guerra, hanno alternato la ricerca storica a quella teorica.

Il decennio dei ’70 è comunque un percorso travagliato che lo porta all’espulsione dal Pci e alla fondazione del Manifesto. Ma con il Partito, di cui era stato dirigente, aveva litigato già prima dell’Ape e l’architetto. Quando l’uomo arriva sulla Luna, un suo editoriale sull’Unità interrompe il giubilo unanime, ricordando che la corsa allo spazio di americani e sovietici è solo un episodio della Guerra Fredda, senza reali prospettive scientifiche. I vertici del Pci lo redarguiscono e per chiudere la tenzone, deve intervenire Giorgio Napolitano: il progresso è un treno in corsa e nessuno disturbi il manovratore. Di lì a poco, però, i viaggi sulla Luna cessano.
Non cessa invece il suo interesse per la Big Science. Studiando la ricerca spaziale e i grandi laboratori come il Cern, in cui aveva lavorato, Cini analizza il legame tra l’organizzazione della ricerca e le scoperte scientifiche che essa genera.

Nei primi ’70, è dunque tra i pionieri della sociologia della scienza in Italia, contribuendo a orientarla verso l’integrazione tra la storia della scienza e gli studi economici e organizzativi.
«La sociologia della scienza in Italia si è conformata da subito in social studies of science, technology and innovation. In assenza del contributo del gruppo dell’Ape e l’architetto ciò sarebbe stato probabilmente impossibile», conclude il sociologo Leonardo Cannavò nel suo contributo a «Per una scienza critica».

Cini capisce presto che una critica efficace deve riguardare non solo il prodotto finito della scienza, ma anche le regole del sistema in cui esso viene realizzato. Con questa prospettiva, ha continuato a guardare per tutta la vita alle dinamiche del progresso scientifico, da quando scrive appunto Il gioco delle regole con Danielle Mazzonis (Feltrinelli, 1981) al Supermarket di Prometeo del 2006 (ed. Codice), dove individua nella proprietà intellettuale la modalità attuale attraverso cui gli interessi privati deviano il corso della scienza.
Pietro Greco usa giustamente il tempo presente: «Marcello Cini è convinto che la conoscenza non sia ancora un ’bene pubblico globale’ e di qui la sua critica al sistema scientifico contemporaneo: ma è anche convinto che sia necessario renderla, per l’appunto, tale».

Muovendo dalle sue radici novecentesche, dunque, Cini ha saputo seguire i cambiamenti del suo tempo senza cristallizzarsi su posizioni di rendita. Forse questa è la spiegazione di un paradosso: è arrivato prima di altri in tanti campi, dalla critica della scienza all’ambientalismo, ma non si è mai dato il tempo di procurarsi degli allievi.
«Penso di non essere stato affatto un ’discepolo’ di Cini, e questo per il semplice motivo che, al di là degli stereotipi che sono stati costruiti, Marcello non è mai stato in senso proprio un ’maestro’ (…) nel senso di fondatore di una corrente di pensiero, di creatore di una scuola», scrive ad esempio lo storico della fisica Gianni Battimelli. L’assenza di una scuola di pensiero «ciniana» si percepisce con più forza ora che Cini non c’è, ma di quelle categorie di pensiero c’è gran bisogno. La scienza non ha finito di generare dibattito, anzi.

L’organizzazione sociale dell’impresa scientifica è oggi in continua discussione, tra precarietà dei ricercatori, ricerca di una metrica di valutazione condivisa, privatizzazione e definanziamento.
Quali siano gli obiettivi della ricerca scientifica è una domanda che si pone anche ai livelli istituzionali più alti. Ad esempio, centinaia di neuroscienziati che collaborano al progetto europeo più ambizioso del momento, lo Human Brain Project finanziato con un miliardo di euro per dieci anni, hanno firmato un appello per chiedere che la ricerca sul cervello non si limiti allo sviluppo di simulazioni computerizzate, nonostante le possibili ricadute commerciali.

Studiare il cervello è un’opportunità o una minaccia? «Rischiamo di ritrovarci persi in una nuvola di nuova superiore stregoneria scientifica all’interno della quale le grandi promesse suscitate dai progetti di big science neuroscientifica (…) si rivelano essere dettate piuttosto da motivazioni ed esigenze economiche», scrive Mattia della Rocca, in uno dei saggi più «futuribili» della raccolta. Proprio alle neuroscienze si era interessato Cini nei suoi ultimi anni.

In sua assenza, la critica della scienza nel dibattito pubblico sta assumendo spesso dei toni caricaturali. Le giuste campagne contro lo strapotere delle corporation in ambito farmaceutico o agroalimentare oggi alimentano anche la diffusione di pratiche pseudoscientifiche truffaldine e protezionismi economici. Proliferano le teorie del complotto a carico degli esperti in ogni campo, che Beppe Grillo ha saputo organizzare in un partito politico.
Tale deriva del dibattito pubblico accredita una rappresentazione parodistica e denigratoria del lavoro dei ricercatori. Di conseguenza, questi a loro volta perdono legittimazione e il concreto sostegno pubblico e privato. La cattiva critica della scienza, dunque, danneggia soprattutto la ricerca migliore. Qualcuno disturbi il manovratore, o il treno deraglierà di certo.