Chi l’avrebbe mai detto che il festival che coltiva da 37 anni l’utopia di far rinascere ogni anno il cinema muto avrebbe potuto realizzare anche una delle più originali rievocazioni del 1968? In effetti, quest’anno c’è anche l’anniversario di uno dei più tumultuosi libri di cinema, uscito in Inghilterra 50 anni fa ad opera di un grande gentleman della storia del cinema, Kevin Brownlow. Per la precisione in quello stesso anno egli pubblica sia il libro riguardante il suo distopico film It Happened Here, che ricostruiva la controstoria dell’occupazione nazista del Regno Unito, sia appunto l’utopico volume The Parade’s Gone by…, viaggio sulle tracce dei testimoni dell’epoca muta americana, che ad onta di un titolo interpretabile pessimisticamente riproponeva tutta la vitalità del muto. Nell’intera storia delle Giornate del cinema muto questo eterno giovanotto inglese è stato una figura di riferimento, e ora il festival gli affida una carta bianca di trascinanti film ritrovati a partire da quel libro, che faranno da perfetta cornice al programma. Inoltre il catalogo pubblica una serie di testimonianze di quanti, a cominciare dall’ex direttore David Robinson, sono stati segnati da quel libro, tra cui tre italiani che (non potendo ahimé interpellare Angelo R. Humouda e Piero Tortolina, che più di tutti ne sono stati eredi) corrispondono ai nomi di Lorenzo Codelli, di Paolo Cherchi Usai e dello scrivente.

Il quadro del programma, allestito dall’attuale direttore Jay Weissberg, è tutt’altro che indegno di questa cornice, è anzi evidente già prima di godersi i film che quest’edizione si prospetta memorabile, e oltretutto articolata in sezioni di notevole consistenza quantitativa, seppur incomplete (ma con auspicabili seguiti), e non di piccoli assaggi. Oltre infatti alle ricche proposte di singoli ritrovamenti, e al ripensamento del canone (sezioni che includono affascinanti rarità di Sjöström, Stiller, Kulešov, Feyder, Lubitsch, Maurice Tourneur e Raymond Bernard, tra gli altri), vi sono i seguiti di due rassegne già l’anno scorso abbaglianti: quella del cinema svedese (che include un ulteriore Dreyer) e quella dei film giapponesi di transizione dal muto al sonoro (che offre Ozu e Mizoguchi).

Le sezioni del programma particolarmente ampie ed innovative sono tre.

La rassegna dei film ispirati a Honoré de Balzac contiene tra l’altro opere di registi fondamentali come Griffith, Capellani, Epstein, Czinner, L’Herbier, registro di nomi che ben si apparenta a una scrittura insieme trasparente e ridondante che nessuno meglio di Balzac riuscì a far coesistere. Se pensiamo che nel cinema francese sonoro il cineasta più indispensabilmente legato a Balzac è stato Jacques Rivette, vedere in particolare i film di Epstein e L’Herbier sarà ben più che una perlustrazione di storia del cinema, c’introdurrà a un cinema vivo e persistente.

La seconda sezione particolarmente meritevole è quella dedicata al regista ed attore italiano Mario Bonnard, di cui conosciamo a grandi linee i due poli filmografici, incontratisi nel suo film del 1960 Gastone, ovvero la fama da attore giovane e tenebroso che ispirò la parodia di Petrolini, e la sua vecchiaia di regista in cui egli affida ad Alberto Sordi l’incarnazione en abîme di questa parodia (peraltro già nel 1919, nel probabilmente perduto Mentre il pubblico ride, Bonnard diresse e interpretò un testo petroliniano). Del Bonnard regista sonoro si conoscevano alcuni rivalutabili peplum, reinvenzioni di racconti d’appendice (oltre gli adattamenti dei più fedeli colleghi del muto Brignone e Campogalliani) quale il particolarissimo La ladra, ma gran parte della sua opera sia d’attore che di regista rimaneva nell’ombra. Per merito di Marcello Seregni della Cineteca Italiana scopriremo tra l’altro la sua regia di I promessi sposi (protagonista Domenico Serra che torna in un piccolo ruolo nella versione sonora di Camerini) e la sua interpretazione con Lyda Borelli (come nel più noto Ma l’amor mio non muore…) in La memoria dell’altro. Scopriremo inoltre alcune tappe della sua attività nel cinema tedesco, che lo unì negli anni 20 a Malasomma, Palermi e ai grandi Genina e Gallone: se su Genina Pordenone è stata da decenni il primo convinto luogo di riscoperta, se su Gallone si attende ancora una completa riscoperta, questa rassegna dedicata a Bonnard sarà una tappa fondamentale del viaggio in un cinema italiano naturaliter europeo (come peraltro qui anche la triennale rassegna Comerio segnalò).

La programmazione però decisamente epocale del festival è quella dedicata a John M. Stahl, anticipata a Cinema Ritrovato di Bologna da una selezione di film sonori e da un film muto. A Pordenone sono in programma altri 9 film muti, che sono quasi tutto quanto si è conservato (speriamo si propongano in futuro gli altri due film dati per superstiti ma anche che se ne ritrovino ulteriori), ristampati per il festival a 35mm, come in occasione del festival uscirà in inglese il primo volume completo sul regista (The Call of the Heart di Bruce Babington e Charles Barr), dopo la pregevole pionieristica pubblicazione del festival di San Sebastian nel 1999, che riuniva in versione spagnola e inglese alcuni bei saggi di Miguel Marías, dell’americano Joe Adamson e di altri, e in particolare riprendeva quello che è (insieme alle voci del Dictionnaire du cinéma – Les films di Jacques Lourcelles) il più bel testo critico sul regista, l’estesa voce di Andrew Sarris pubblicata nel 1980 in Cinema: A Critical Dictionary. Tuttavia la pressoché intera produzione muta del regista restava sino ad oggi un mistero, e anche dopo Pordenone se ne dovranno indagare ulteriori tasselli, come quel triennio tra muto e sonoro che, dal 1927 al 1929, interrompe la sua attività registica, in forse non casuale coincidenza con la scomparsa della moglie, per esercitare solo il ruolo di produttore-supervisore alla Tiffany, in una cesura netta tra il suo lavoro da regista nel muto con Louis B. Mayer divenuto poi M-G-M, e il ritorno da regista nel sonoro alla Universal, seguito da un periodo finale alla Fox. Stahl morirà nel 1950, e certamente ciò ne precluderà la conoscenza anche alla più rabdomantica critica francese (rispetto alla quale alcuni articoli tardivi di “Positif” e il citato dizionario di Lourcelles prolungante “Présence du cinéma”, più il solitario Skorecki ai “Cahiers du cinéma”, sono un parzialissimo risarcimento).

Chi ha seguito gli Stahl a Bologna non può avere dubbi che si tratta di uno dei massimi registi, insieme trasparente e percorso di zone segrete (più di Lang o Ulmer, oserei dire). Solo Leo McCarey e Allan Dwan gli sono forse superiori, mentre il grandissimo King Vidor gli è degno sodale alla pari, come esplicita la comune ossessione del “cuore” (ossessione già preludente a Francisca di Oliveira), e non a caso gli ultimi tre film muti di Stahl che vedremo incrociano come protagonisti le due mogli-muse di Vidor, Florence Vidor e Eleanor Boardman, e il grande meteorico attore di The Crowd James Murray, qui ammirato l’anno scorso.

Stahl è segreto già nella vicenda autobiografica, che la sua prima regia perduta echeggia e il cui titolo A Boy and the Law è la perfetta descrizione: di origini russo-ebraiche, con esperienze misteriose di carcere, Stahl affronta col suo cinema muto la più radicale eredità di Griffith, la lincolniana frequentazione che fu anche di John Ford. E nei suoi film apparentemente solo “civili”, “femministi” Stahl è contemporaneo, oltre la sua morte, degli anni 60.

Classico e insieme sperimentante più di Welles (Adamson racconta del prolungato provino con Margaret Sullavan in cui egli cerca quell’attimo che ne rende il volto unico, e del continuo rigirare le scene per raggiungere l’apparente semplicità), Sarris scrive bene che il suo Imitation of Life ha il finale più proustiano di tutto il cinema, dove piangiamo pur nel lieto fine.

Pordenone introdurrà alla massima bellezza di uno dei grandi artisti del Novecento.