Se vi trovate a passare per piazza del Popolo a Roma e alzate lo sguardo a destra della porta, quello sarà il luogo per ricordare Luigi Magni, scomparso domenica all’età di 85 anni, il regista della Roma papalina e dei moti carbonari. Proprio in quel punto si trova la lapide che ricorda Targhini e Montanari, i due carbonari condannati alla ghigliottina: lo ricordiamo mentre la indica, mostrandola tutta annerita, un monito alla città che non sa ricordare e non si prende cura della sua storia. C’è scritto: «Alla memoria dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari che la condanna di morte ordinata dal papa senza prove e senza difesa in questa piazza serenamente affrontarono il 23 novembre 1825».

Non sono per niente invecchiati i suoi film, come Nell’anno del Signore (1969) che raccontava la vicenda dei due condannati nello stato pontificio del 1825 sotto il regime di Leone XII, con la perfetta aderenza del personaggio Pasquino interpretato da Nino Manfredi, ancora nel suolo di popolano, o Alberto Sordi, il frate confessore grezzo quanto ostinato nel voler convertire le due anime e Ugo Tognazzi il cardinal Rivarola nella sua astuta funzione di capo della polizia pontificia.

Coproduzione italo francese (Robert Hossein è Montanari) Magni avrebbe voluto per il film attori sconosciuti, ma la produzione per non avere problemi per i contenuti anticlericali del film impose gli attori rampanti della commedia italiana (c’era anche Claudia Cardinale), così da far deviare il film verso il genere storico-comico già percorso da Brancaleone alle crociate. Il film nasceva all’epoca dei movimenti studenteschi, delle lotte operaie e femministe, ne sottolineava i massimalismi, si indicavano i rischi della sconfitta – e per questo il movimento preferiva di gran lunga i contemporanei film western, considerati ben più eversivi. Magni era uno studioso del risorgimento, periodo trattato sempre con diffidenza dal nostro cinema per i suoi risvolti rivoluzionari. Pure se ben inserito nel cinema commerciale, fin dai suoi esordi scrivendo per Age e Scarpelli e poi lavorando per Monicelli, Salce, Bolognini, Lattuada, quest’epoca storica è il filo conduttore della sua vasta attività che possiamo pensare anche come una instancabile passeggiata romana (perfino Rugantino è suo, pur con varie paternità). Continuerà il racconto con In nome del papa re (’77) David di Donatello, che inizia con l’ultima decapitazione eseguita a Roma nel 1968, quella di Monti e Tognetti che avevano compiuto un attentato contro la caserma pontificia sperando che il popolo di sollevasse e In nome del popolo sovrano (’90) che unisce risorgimento e melodramma, storia d’amore tra la marchesina innamorata del garibaldino (anche qui con Nino Manfredi come Angelo Brunetti, il Ciceruacchio).

Film per il grande pubblico, una precisa notazione storica li percorre: una battuta, una scritta, un nome che potrebbero spalancare le porte di quel momento breve e insurrezionale, come tra il novembre del ’48 e il ’49, le prime elezioni a suffragio diretto e universale, la proclamazione della Repubblica romana («il Papato è decaduto di fatto e di diritto») che sarebbe durata fino al 4 luglio ’49, nazionalizzati i beni ecclesiastici, abolito il Sant’Offizio, la giurisdizione dei vescovi sulle scuole, sancito il diritto alla casa con il sequestro dei beni ecclesiastici. Dal Babuino a Trastevere a Monteverde sotto lo sguardo ammonitore di Luciano Manara, Enrico ed Emilio Dandolo, Ugo Bassi, i fratelli Bonnet a ricordare quello che allora sembrava acquisito e oggi ancora è oggetto del contendere.