Entrare nello studio di Willy Verginer a Ortisei è come addentrarsi in un altro mondo: da subito si sente, oltre al picchettìo dello scalpello, il profumo del legno di tiglio che usa per le sue opere, appesi alle pareti manifesti di mostre passate, mentre una libreria di metallo in fondo è piena di utensili vari per il suo lavoro artigianale-artistico, barattoli di colore e contenitori pieni di pennelli di diverse dimensioni. Poi ci sono le opere: alcune pronte da spedire, altre in progress. Willy ci lavora assieme ai due figli gemelli, anche loro scultori, e a volte espongono assieme. «All’estero», ci dice laconico Christian, uno dei due presente nel primo vano del grande spazio a pianterreno con enormi finestre che aprono sullo stupendo paesaggio montano della Val Gardena.

«In Alto Adige la nostra arte non è recepita», conferma Willy subito dopo, affermando di essere considerati «semplici intagliatori di legno, un aspetto, questo, dell’arte artigianale, che nel mondo è molto apprezzato, a partire dai Paesi europei fino agli Usa e in Taiwan». L’unico Paese in cui non è tanto gradito questo tipo di sculture è la Germania. Forse ricorda troppo il nazismo? È ciò che gli ha detto una volta un critico, poi ci fa vedere in rete alcuni lavori di scultori tedeschi che lavorano in quest’ambito, come Balkenhol, che tende all’eccesso di realismo per rompere quel legame con una storia che tuttora pesa…

Willy Verginer, classe 1957, nato nella Val Gardena dove si conserva a tutt’oggi la tradizione di lavorare il legno per creare le famose statue e statuette per lo più di arte sacra diffuse in tutto il mondo, aveva frequentato l’istituto d’arte locale, ma nella sezione pittura. Ha imparato il mestiere di intagliare il legno da autodidatta, lavorando in alcuni laboratori con grandi maestri tra cui Adolf Vallazza (di cui parliamo qui accanto), ma non per questo gli è mancato il contatto col mondo internazionale: da sempre ama scambiare impressioni e/o esperienze con i tanti amici artisti o del mondo accademico.

Poi preferisce ritirarsi nella sua valle per fare le «sue» riflessioni piegando a suo volere l’arte lignea: nell’atelier vediamo alcune opere, piazzate a caso, «a riposo», per avere il tempo e il distacco necessario prima di passare all’ultimo atto, che è quello di applicare il colore. È questa per Willy Verginer un’operazione alquanto delicata, che può rovinare tutto o elevare l’opera a capolavoro. Le sue figure sono realizzate in modo assai realistico, le forme del corpo sono rifinite quasi alla perfezione, mentre gli abiti rimangono con taglio grezzo, come se fossero vissuti addosso a quella creatura onde conferirle un’aura vivida. Fin qui è tutto di color legno naturale, e non si distinguerebbe da altre simili se non per posizioni o dettagli aggiunti.

Ciò che ne fa un’opera riconoscibile è la coloritura che avviene a tagli netti, come se fosse stata immersa in parte in un barattolo di colore. Netto e vivo. Willy usa colori forti, decisi, a tinta unita, senza sfumature. Il suo è un taglio deciso, infatti, con quell’apparenza realistica del volume corporeo e grazie a quella parte colorata riesce a innalzarla a un livello astratto e farla significare altro. Per stupire. Far riflettere. Far pensare.

Lo troviamo alle prese con la silhouette di una piccola volpe che in seguito viene posata sopra un’enorme botte di latta. Per ora s’intravede la forma, sul piano di legno illuminato dalla luce diurna, posto davanti alla finestrona, dietro ci sono diverse foto a colori che aiutano l’artista a orientarsi nell’uso mirato dello scalpello, mentre accanto c’è una piccola volpe imbalsamata che lo guarda: per riuscire a catturare le giuste proporzioni di muso, corpo, volume e la profondità dello sguardo.

Sì, perché Willy Verginer crea figure che vivono, le cattura nei momenti di vita. Come riesce in questo? «Uso sempre un modello, di cui faccio (o mi faccio dare) alcune fotografie, dalle quali elaboro una prima silhouette che poi viene raffinata in presenza di quello stesso modello o della modella nel corso di alcune sedute», ci spiega mostrandoci una delle Moon Girls create di recente e modellate sulla nipotina lì presente, molto fiera del suo alter ego, elegante, raffinato, dolce, con quel cerchio attorno alla testa che richiama l’aureola dei santi ma qui si fa testimonianza di innocenza e di gioco.

Per il suo lavoro Willy usa lastre di legno molto spesse, asciugate per dieci anni all’aria, mentre una volta si usavano tronchi interi dai quali ricavare le statue a figura intera di santi a tutto tondo. Lui non rinnega quella tradizione antica, anzi, la fa sua: i barattoli di una delle opere dedicate all’ambiente li ha fatti fare a un tornitore, mentre le parti dorate di uno dei protagonisti dell’installazione intitolata Rayuela (dal libro di Julio Cortázar) sono state realizzate da uno specialista per statue liturgiche.

«È un bene avere queste maestranze a portata di mano», dice sorridendo e aggiunge che negli Usa è stato proprio l’aspetto artigianale, l’uso del legno, che ha fatto impazzire soprattutto il pubblico giovane, accorso in massa a Detroit nel 2017 per vedere After Industry, dove ovviamente – data la storia della città in cui ha sede la General Motors – non potevano mancare riflessioni sui pneumatici creati in quella fabbrica: i suoi erano di legno, appesi al muro, con la base dipinta di verde e due lumache, in esplorazione, sopra; e altri con la parte superiore dipinta di verde con un piccolo gregge di pecore. Titolo dell’opera: La velocità dell’agnello.

Si diverte a dare i titoli, Willy, per spiazzare, deviare lo sguardo, afferrare il suo punto critico e ci guarda stupito, quando chiediamo se la figura in legno blu che troneggia nel suo atelier rappresenti il tema dell’ambiente, visto che sembra un giovane innalzatosi da arrogante e prepotente, nel suo colore blu marino, per dominare il mondo, sebbene le ginocchia siano contornate da bottiglie di vetro e barattoli di tutti i tipi (o vi è infilato – come lo siamo noi oggi – fino alle ginocchia, nell’inquinamento generale?).

Moon Girl

Non ci aveva minimamente pensato a cosa potesse significare, essendo il colore – come abbiamo già detto – quel tocco che deve far trasalire lo spettatore nel guardare le sue figure realiste e al contempo astratte. La «ragazza luna», ad esempio, rappresenta un volto iperrealista, dolce, perfettamente liscio, come risultato di una personalità, come ci spiega ancora Willy, una sorta di resumée de vie, a differenza di uno scatto fotografico che invece rappresenta un attimo rubato alla vita. Potremmo chiamarle istantanee tridimensionali cubiste surrealiste astratte?

Torniamo a Rayuela, mostra la cui inaugurazione è stata a Tel Aviv nel 2019 – a cura di Yaron Haramati – e l’anno successivo a Trento, a cura di Luca Beatrice, per la quale è stato pubblicato un bellissimo catalogo. Cosa significa quel nome? «è la definizione di quello che in Italia si chiama il gioco del mondo, che un tempo era giocato da tutti i bimbi nei cortili, per strada, disegnando quadrati per terra e usando un sasso per riuscire a saltellare dalla terra, il quadrato in basso, al cielo, il quadrato in alto», spiega Willy.

«Mi sono ispirato al racconto omonimo di Cortázar, un cult negli anni in cui era uscito, la cui struttura narrativa è egualmente organizzata a quadri che si possono leggere indistintamente, saltellando avanti e indietro. Per me Rayuela è la metafora della vita: in fondo tutti nelle nostre vite facciamo il possibile per raggiungere una meta, uno stato di benessere, che a mio avviso è il cielo, ossia il benessere dell’anima. Non lo intendo assolutamente in modo religioso ma come corpo celeste e da lì ho elaborato la Moon Girl».

A Trento ha aggiunto alcune varianti, perché ogni opera cresce, muta, diventa altro: qui è un ragazzo con stivali rosa che saltella in alcune scatole, dove la prima scatola rappresenta la terra con l’erba, e l’intera installazione è dominata dal colore antracite, il colore del petrolio quando sgorga dalle navi per riversarsi sulla superficie dell’oceano e sulle spiagge. Willy non tralascia mai la sua vena critica riguardo al mondo di oggi. A proposito, il suo atelier si trova nella periferia di Ortisei, paese che nel giro degli ultimi cinque anni è diventato anch’esso centro turistico in cui dominano gli alberghi, per cui «la vita», quella di tutti i giorni, è migrata altrove, come parte a se stante, lontano dal centro turistico. Vuoto, con tante scatole di facciata da riempire.

A proposito: quanto c’è di artigianato nelle sue opere? «Dal punto di vista della creazione non si distingue», afferma ridendo mentre dà un ulteriore colpo alla sua volpe in legno, «perché per dar la forma usiamo gli stessi utensili del famoso Riemenschneider del Seicento tedesco, con l’aggiunta tecnologica della sega elettrica e del trapano. Io amo il legno (e lo tocca con le dita) perché ha una struttura particolare, la sua anima è diversa rispetto al bronzo o alla plastica, benché poi lo coloro in modo tale che vi assomigli».