«Da una parte, il registro imprenditoriale, il mercato e la concorrenza, tutto quello che riguarda il gioco diretto dei processi economici; e dall’altro, la valorizzazione del vivente, la sua significazione, il suo valore, letto in chiave evolutiva, cioè la promessa d’individuazione di una tendenza vincente». Così acutamente Angela Putino chiosava nel 2007 quando sul secondo numero della rivista adateoriafemminista si interrogava su «‘O sistema». In particolare il riferimento risiedeva allora nella relazione tra neoliberalismo e camorra eppure risultavano già alcuni elementi interessanti: il registro imprenditoriale, la costruzione del mercato che si fonda non sullo scambio ma sulla concorrenza insieme alla significazione di un vivente che viene fagocitato dentro il dispositivo strategico neoliberale dell’«individuoimpresa». Ci sono anche i temi della «promessa» e dell’«evoluzione» che in qualche modo aprono a biopotere e biopolitica, quando cioè – prosegue Putino – «le forme insostenibili che rendono effettivamente precarie le nostre esistenze non le scorgiamo, e proprio questa nostra cecità rende possibile a un potere di investire le nostre vite».

Il governo della vita

Forme di soggettivazione dunque, spostamento da un piano oggettivo a quello più propriamente soggettivo in cui ne va delle vite e della loro relazione con il potere e si deve di necessità fare i conti con l’ordine simbolico, capire dove scricchiola e lì – proprio in quel punto – agire. È in questa direzione che Tristana Dini e Stefania Tarantino, che con Angela Putino hanno condiviso percorsi e pratiche politiche, hanno deciso di squadernare ulteriormente il dibattito attraverso la cura del volume a più voci che va sotto il nome di Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà (Natan edizioni, euro 11, pp. 192). A oggi numerosi sono infatti gli interventi critici riguardo il neoliberalismo ormai inteso come «la nuova ragione del mondo» (che dà il titolo a un volume diPierre DardoteChristian Laval); nessuno di questi tuttavia si è concentrato sui rapporti tra il cosiddetto «governo dell’autogoverno» e il femminismo.

Gli undici saggi contenuti nel volume mettono in campo e rilanciano l’analisi complessa di alcune categorie della politica facendole interloquire in un momento in cui, come ricorda Stefania Tarantino nella prefazione «le contraddizioni scoppiano e la libertà femminile è sempre più minacciata dalle difficili condizioni materiali del tempo presente». Bisogna tuttavia fare chiarezza su ciò che si intende per neoliberalismo e ciò che si intende per femminismo. Se il primo è una «razionalità politica», come nota Laura Bazzicalupo nel suo intervento, è Ida Dominijanni ad aggiungere che «non ne va “solo” del mercato, del lavoro, della produzione e della finanza, ne va di noi, di ciò che siamo, di come diventiamo soggetti, di come ci autorappresentiamo». Allo stesso modo bisognerà chiarirsi su cosa si intenda per femminismo. Se non lo si fa si rischiano argomentazioni con premesse vaghe o generaliste che non tengono conto dei contesti e che spesso vanno in direzioni contrarie.

Il punto di avvistamento dal quale in questo volume si parte è quello del femminismo della differenza italiano. Certo che in generale la divaricazione fra neoliberalismo e femminismo è stata posta da alcune, in particolare Nancy Fraser che l’anno scorso sul Guardian tuonava di Come il femminismo è diventato ancella del capitalismo. Laddove non può sfuggire che il neoliberalismo «non coincide col capitalismo e con le sue ‘mosse’, anche se ne mutua miti e immaginario e si struttura sul suo regime di verità» (Bazzicalupo), è anche vero che il discorso di Fraser sulle diversità tra femminismo della prima ondata e quello della seconda ondata risente di un dato contesto. Specifica inoltre Dominijanni come il femminismo della differenza italiano «non nasce come contributo al compimento del progetto emancipatorio del moderno, bensì come un taglio al suo interno; e di quel progetto sviluppa una critica che parte dalla presa d’atto della sua già acclarata crisi, e che perciò non punta a un suo rilancio, ma bensì a un suo superamento».

Se è chiaro come il conflitto tenda a essere espunto e neutralizzato nelle maglie neoliberali è pur vero che è proprio il conflitto per la differenza ha significato un passaggio dal paradigma dell’oppressione a quello dell’espressione (Federica Giardini). Restando in tema di paradigmi, come ricorda Marianna Esposito, non potrà essere taciuto «il salto sperimentato dalla libertà femminile nel passaggio dal fordismo al post-fordismo». Qual è allora, prosegue Esposito, «il compito filosofico e politico che spetta al femminismo come pensiero di critica del presente quando esso si misura nel passaggio dalla governamentalità biopolitica a quella neoliberale?»

Nel volume si potranno leggere pagine notevoli sulla sessualità e l’imperativo ipertrofico e narcisistico del godimento (Dominijanni e Dini); così come sull’interrogazione delle categorie di capitale, lavoro e cittadinanza (Marisa Forcina); sul lavoro e la precarietà che si intrecciano variamente al debito pubblico e la colpa (Elettra Stimilli), il ben/essere (Giovanna Borrello) e le intersezioni con il capitalismo finanziario (Monica Pasquino), fino ad arrivare allo stesso ruolo che l’epistemologia femminista presiede alla costruzione del processo di conoscenza (Maria Rosaria Garofalo). I temi, che sconfinano dal solo dibattito italiano ed europeo, arrivano fino al sudest asiatico attraverso il postcolonial feminism (Alessandra Chiricosta).

Rovesciamento relazionale

Certo alcuni punti rimangono comuni e innervano l’intero testo. L’imprenditoria di sé di cui si tratta è in frizione con la libertà femminile. Di fatto il confronto tra i due termini diviene il rovesciamento di due posture precise di relazionalità con il sé e con il mondo. Mentre nell’imprenditorialità di sé si assiste alla costruzione di una soggettività falsamente auto-sussistente che aderisce con il mercato perché lo incrementa e che mette al servizio le proprie qualità come potenziali punti di giuntura con la razionalità neoliberale, la libertà femminile sostanzia la soggettività femminile .

Il nodo tra libertà e imprenditorialità di sé suggerisce letture della materialità che oggi ci tocca vivere. Appunto perché quella materialità tocca variamente e in maniera complessa le vite di ciascuno. Quelle vite che sì, sono prese nella tagliola del neoliberalismo ma che ascoltate una per una nella singolarità delle esperienze, illuminano una vulnerabilità con cui è bene fare i conti. Sono conti politici e di presa in carico che pur non prescindendo dallo sfondo in cui si agitano, spesso eccedono. Conti che aprono a una domanda che è appropriato ribadire: le mappe di contraddizione alle quali stiamo assistendo, dove vi sono progetti esistenziali di chi non arriva neppure alla soglia minima della precarietà, consentono di interrogarsi ancora sui linguaggi per trovare anche pratiche politiche efficaci? Lo spiega bene Tristana Dini quando afferma che il femminismo «si trova esattamente nel punto in cui la razionalità neoliberale può venire forata, per fare spazio ad altro». Che occorra dunque un esercizio costante di attenzione? Che quel foro sia la vita stessa quando eccede e si sottrae e non può in alcun modo venire dedotta in nessuno sfondo?