Due anni dopo essere stata promessa da un François Hollande in campagna elettorale alla ricerca del voto operaio, all’inizio della settimana è stata approvata definitivamente la «legge Florange», che dovrebbe se non impedire almeno frenare la chiusura di fabbriche redditizie decisa soltanto per motivi finanziari, ma che porta simbolicamente il nome dell’altoforno che ha finito di funzionare il 24 aprile del 2013, lasciando a casa i 630 dipendenti in una Lorena già fortemente deindustrializzata. La legge arriva inoltre dopo la svolta di Hollande a favore dell’impresa, siglata con il Patto di responsabilità all’inizio di quest’anno, che concede al padronato 30 miliardi di sgravi sui contributi senza aver ottenuto delle contropartite precise in termini di occupazione. Edouard Martin è stato il sindacalista-simbolo della lotta degli operai di Florange. Ancora un anno fa, il rappresentante della Cfdt aveva denunciato la dimissione dello stato di fronte al potere delle multinazionali. Oggi è candidato per il Partito socialista alle europee, capolista nella regione del Grand est. «Si può storcere la bocca – spiega – ma questa legge ha almeno il merito di esistere». Martin ammette che «la legge è di sotto delle attese dei lavoratori di Florange, ma fa dei reali passi avanti». Per l’ex sindacalista passato alla politica, «la rivendicazione del mondo del lavoro è proteggere e mantenere un’industria forte sul territorio francese e europeo. Se oggi si è aperto un vero dibattito, a livello francese e europeo, sull’assoluta necessità di una politica industriale lo dobbiamo alla lotta di Florange e di Liegi», altro sito del gigante dell’acciaio ArcelorMittal. La legge, che mira a «ridare una prospettiva all’economia reale e all’occupazione industriale», obbliga le imprese che intendono chiudere una fabbrica redditizia a cederla se c’è un acquirente. L’impresa ha l’obbligo di cercare, per tre mesi, un candidato alla successione. Se non rispetta questo impegno potrà essere multata, per l’equivalente del valore di 20 smic (salario minimo) al mese per posto di lavoro soppresso (in sostanza, con una multa intorno ai 28.500 euro al mese, viene raddoppiato il costo della soppressione di un posto di lavoro), anche se la multa non potrà superare il 2% del fatturato. Inoltre, l’impresa potrà essere obbligata a restituire gli eventuali finanziamenti ricevuti dagli enti locali e dallo stato. Il Ps, i Verdi e i radicali di sinistra hanno votato a favore, il Front de gauche si è astenuto, la destra e il centro hanno votato contro, parlando di «Waterloo economica», che non farà che scoraggiare gli investimenti esteri in Francia. Il testo è più che altro simbolico e molto probabilmente avrà pochi effetti sulla chiusura di fabbriche. La legge Florange si applica infatti solo alle fabbriche con più di mille dipendenti, escludendo la piccola e media impresa, che però in Francia è responsabile dell’85% delle soppressioni di posti di lavoro. ArcelorMittal, Goodyear, Petroplus hanno fatto parlare molto di sé, ma il dramma è maggiormente presente in imprese più piccole e le maglie della rete della legge sono troppo grosse per includere la maggior parte dei programmi di deindustrializzazione e delocalizzazione. In Francia nel primo trimestre del 2013 sono state chiuse 191 fabbriche, una cifra molto vicina a quella dello stesso periodo dell’anno precedente e l’anno scorso c’erano 613 fabbriche in meno rispetto a tre anni prima. Le imprese, inoltre, non hanno l’obbligo di vendere, ma solo quello di «ricercare» un eventuale acquirente, a cui potranno poi rifiutarsi di cedere il sito se provano che la presenza di un concorrente farebbe correre rischi a tutta l’attività. La legge lascia ampi spazi all’interpretazione. Altri punti della legge sono un maggiore potere concesso agli azionisti stabili, con la speranza di frenare i cosiddetti «licenziamenti di Borsa», una regolamentazione delle Opa ostili e la possibilità teorica per i dipendenti di acquisire fino al 30% del capitale della loro fabbrica.