Se l’acqua, come sostiene qualcuno, conserva una «memoria», ricorderà di sicuro che nel Lazio è cominciato tutto, qualche anno orsono. La disobbedienza organizzata dei cittadini di Aprilia contro l’aumento abnorme delle tariffe da parte della privatizzata Acqualatina aveva spianato la strada a un movimento più ampio di protesta che si alimentava delle teorie altermondialiste sull’accaparramento delle risorse naturali e, più in concreto, delle vessazioni quotidiani degli agenti addetti alla riscossione dei balzelli. A volte persino accompagnati da agenti armati, come nella parodia di un regimetto latinoamericano d’antan.

A qualche anno di distanza, a torrente diventato fiume e poi esondato in 27 milioni di voti a sostegno dell’acqua pubblica, è stato necessario tornare sull’argomento e mettere nero su bianco, con atto pubblico e legiferante, che «l’acqua è un bene naturale e un diritto naturale universale». Lo ha fatto una legge regionale e non una Costituzione, come la solennità dell’affermazione lascerebbe intendere. Approvata all’unanimità dall’intera assemblea del Lazio, la legge in questione è il frutto di un’iniziativa cittadina, analoga a quella messa in piedi in Toscana prima del referendum del 2011 e del tutto simile a un’altra pendente in Parlamento da un paio di legislature. Il provvedimento, licenziato l’altro ieri in aula con gran giubilo di sinistre, movimenti e pentastellati, nonché del presidente della Regione Nicola Zingaretti, erge degli argini difficili da scavalcare: di qua l’acqua – pubblica e partecipata – dall’altra parte i privatizzatori, spalleggiati da poteri più o meno forti e più o meno occulti, governi con l’avallo della troika internazionale e commissari addetti alla spending review, incaricati di esporre sul bancone del mercato globalizzato la propria merce migliore. Esso prevede l’assenza di fini lucrativi, la possibilità per i comuni di organizzarsi in consorzi e affidare la gestione delle risorse idriche anche a società di diritto pubblico, la partecipazione delle comunità locali e perfino un fondo per incoraggiare la ripubblicizzazione in quei non pochi comuni dove l’acqua è tuttora affidata alle multinazionali dell’oro blu o semplicemente governata con norme privatistiche.

Non è poco, visti i tempi che corrono, anche se è sempre bene esigere di più. Per esempio la tutela di quei comuni che vogliano autogestirsi le risorse idriche. Ora basterebbe che in ogni giunta regionale d’Italia facesse un copia e incolla delle norme laziali e le mettesse al voto, da qui alla fine della primavera. Approvate una dietro l’altra, darebbero l’idea di un’Italia non a 21 ma a una sola velocità, che veleggia compatta verso un’unica meta e prova a ricostruirsi dal basso, dai comitati cittadini e dalle strutture statali a loro più prossime. L’effetto, c’è da giurarci, sarebbe dirompente, specie se il voto somigliasse a quello laziale: all’unanimità, con cittadini organizzati e consapevoli a promuovere e vigilare. Sarebbe un altro modo di far capire, una volta per tutte, che il referendum c’è stato e lorsignori lo hanno perduto. Se ne facessero una ragione.