Le Anime morte è il luogo dei vuoti: i quattro o cinque piani ripiegati su se stessi, densi di parole-feticcio e anacoluti, di una sintassi di geniale irresponsabilità, quando crollano, non lasciano che assenze, mancanza, la lancinante inadeguatezza del tessuto sociale e umano della Russia di metà Ottocento. Il vuoto dei contadini-schiavi defunti, comprati e ipotecati per raggiro. Il vuoto della comunicazione, del senno, del potere. Il vuoto delle anime semivive dei padroni, i proprietari terrieri che nell’abbastanza esplicita modellizzazione dantesca esemplificano gola, lussuria, iracondia, avarizia.
Della genia degli ignari e degli ignavi è il primo possidente da cui si reca il pigro picaro Cicikov: Manilov, che ha come quasi unica colpa proprio quella di essere vuoto. Con la più esplicita sanzione autoriale: «Non c’è nessuno che non abbia qualcosa che lo contraddistingue, ma Manilov non aveva nulla». Non ha neanche, per l’incredulità dei lettori di romanzi russi, un nome e patronimico. Larva d’uomo, il flatus vocis del solo cognome lo vorrebbe attraente come una carta moschicida: saccarinosa e sdolcinata è tutta la sua aggettivazione e ogni movenza. L’indifferenza assoluta e l’atarassia ne farebbero quasi un filosofo, quale in sostanza vuol figurarsi, non avesse nella mente e nel cuore quello sconcertante e impenetrabile vuoto: sapientemente guidati all’ombra dei suoi pensieri, scopriamo cos’è l’oceano del non essere. In nessun caso, certo, andrà confuso con l’antica stirpe degli Onegin e la futura degli Oblomov: Manilov è geneticamente immune alla noia e all’accidia.

Sentimento e sensualità
La macchiettistica emozione con cui accoglie il truffatore e l’amicizia da sogno che va prospettandosi rivelano dove sia lo zucchero al quale con tanta insistenza rinvia Gogol’. Il belloccio e imbelle giovanotto di campagna annida in sé qualche elementare miscela di sentimentalismo e sensualità, delle cui implicazioni non ha, ovviamente, alcuna consapevolezza. Il vigore e il nitore della rappresentazione, però, sta tutto in un portentoso correlativo oggettivo, che come cornice gestuale sottende ogni pagina e ogni pausa di questo vuoto: ininterrottamente, da quando intravede all’orizzonte il calesse del visitatore a quando lo segue svanire in tenero sbigottimento, Manilov fuma la pipa. La nuova moda affermatasi nei primi decenni dell’Ottocento tra i giovani aristocratici, appresa sotto le armi, lo rende, in qualche modo, uomo del suo tempo, ma se possibile disumanizza ancora di più la sua astrazione di personaggio. Ora la pipa, ora il lungo – immaginiamo un metro – cannello alla turca che ne filtra i vapori ci danno la percezione di muscoli in tensione e banchi di fumo a mezz’aria, materializzano, solidificano tutto quello che non si dice e non si fa tra le marionette dell’intreccio.
Non dobbiamo immaginarci un inferno – siamo ancora al limbo – ma la prospettiva onirica di un bambino, fatta di relitti, frammenti referenziali e verbali: la lunare città di cenere costruita sul tavolo, sul davanzale dello studio di Manilov, la pipa che precipita alla stupefacente proposta d’acquisto. Gioiellino en abyme che spiega quanto algido possa essere ogni fremito in Gogol’ è questa epanadiplosi in cornice di fumo: «Lasciato l’uno la pipa e l’altra il ricamo eventualmente per le mani, si stampavano sulle labbra un bacio così lungo e languido che in quell’intervallo si sarebbe potuto con facilità fumare un piccolo sigaro di paglia».

Il feticcio dei feticci
Se allarghiamo la prospettiva all’intera opera di Gogol’, il tabacco si rivela un’autentica miccia, un detonatore espressivo che innesca in decine di combinazioni la sclerotica fisicità, i gesti-maschera senza i quali non è data in Gogol’ la dinamica testuale stessa. La pipa è il biglietto da visita degli ufficiali e dei viveur. Come pure dei cosacchi, convinti e beati sibariti della provincia dell’impero, che tra una battaglia e l’altra se ne stanno sdraiati dall’alba al tramonto con la pipa in mano. Ben maggiore dinamicità è veicolata invee dal tabacco da fiuto. Già di per sé il tabacco da fiuto implica le mani e i nasi, per assioma in Gogol’ sineddochi animate. Così come implica la tabacchiera, feticcio dei feticci, con generali, magari turchi, o bellissime dame a spiarci dal coperchio, sui cui volti laccati passa la lingua, scorrono i polpastrelli, fino a farne altri buchi bianchi, altri vuoti.
Nelle tabacchiere altrui s’intrufolano ditoni di assai dubbia igiene, le più basilari nevrosi sono a livelli esponenziali. Continuamente a toccarsi, congiungersi, a contrarre, spiaccicare lo spazio fisico e testuale, i nasi con le loro capienti narici, dalle quali qua e là spuntano fili di tabacco, le singole dita e l’allettante cavità della tabacchiera inscenano di continuo autentiche ammucchiate di simboli sin troppo espliciti, girandola e ginepraio di alternative per l’autore del Naso fallico per eccellenza, dall’ambigua, chiacchierata e in fin dei conti inesplorata sessualità. Eloquente cammeo della debordante materialità allusiva del tabacco sono le due violette sul fondo della tabacchiera di Cicikov, sempre offerta ad altri dal maestro dell’arte della lusinga, con un’intrigante, dolciastra nota olfattiva a uso delle dame, ma forse non solo, che in qualche modo lo accomuna a Manilov.
La natura intrinsecamente animalesca dell’aspirazione del tabacco risulta perfetto attributo della rituale contrapposizione tra vittima e carnefice, motivo gogoliano davvero tra i più distintivi. Il povero Akakij Akakievic, leggendario protagonista della Mantella, non vede il sarto che decreta l’irreversibile usura del suo vecchio cappotto, ma solo le sue manone, che passano dalla tabacchiera al tessuto stropicciato, dal tessuto alla tabacchiera. Nel Naso l’impiegato del giornale, mentre si fa beffe dello sfigurato Kovalëv, s’interrompe due volte per una presa da una tabacchiera con una deliziosa fanciulla sul coperchio, e infine gliela offre, a infierire, anche in senso traslato, sulla sua mutilazione.
Come in una catena improntata alla funzione dominante della comicità grottesca, il carnefice può essere inglobato nel più ampio contesto delle forze oscure che compenetrano, con assoluta familiarità e naturalezza, lo spazio quotidiano. Nel racconto Un luogo stregato il profanatore, prima di estrarre il presunto tesoro dalla tomba, si ferma per la canonica tirata di tabacco, provocando dal nero della notte alle sue spalle uno starnuto tremendo, che gli riempie di foglie la faccia e la barba. Identico motivo caratterizzerà la vendetta del fantasma dell’impiegato nella Mantella: il poliziotto che s’illude d’averlo agguantato ha la malaugurata idea di festeggiare con pessimo tabacco che l’eolo d’oltretomba gli spargerà davvero ovunque.
Da ultimo, nei due testi derivati per intero dalla tradizione storico-folcloristica ucraina, programmaticamente estranei all’elemento comico – Taras Bul’ba e IlVij – è proprio il tabacco a vestire il ruolo di raccordo con le invarianti gogoliane e di esiziale chiave d’intreccio. Taras Bul’ba, nel mezzo di un drammatico inseguimento a cavallo, decide di tornare indietro a cercare la sua inseparabile pipa ed è sopraffatto e ucciso dai polacchi.

Brutalità di un gesto

Il seminarista filosofo Choma Brut, vegliando in chiesa la giovane strega defunta, è solleticato la prima notte e vinto la seconda dalle tentazione di farsi una tiratina tra un salmo e l’altro: neanche ha sollevato il naso, e già sono scatenate tutte le forze dell’inferno.
Insomma, se la chiave di lettura complessiva della prosa di Gogol’ è il funambolico assortimento dell’incongruo e dell’intimo, uno degli ingredienti fondamentali ne è il tabacco. Che tutto disgrega e disperde, ovunque s’intrufola, mimando in sfacciata liceità tutto quanto proibito, denudando l’incongrua, farsesca brutalità dei gesti del quotidiano.