È uscita, presso l’editore romeno Eikon Angelo di sangue/Înger de sânge (pp. 107, euro 15), un’antologia che raccoglie in doppia lingua (italiano e romeno, appunto) un’ampia scelta delle poesie di Franco Manzoni, ripercorrendone il cammino attraverso quasi tutta la sua opera – da «Senza volto», del 1978, fino ad alcune poesie inedite scritte fra il 2005 e il 2018.

LA PREFAZIONE di Carlo Alessandro Landini ne sottolinea molto bene, portandoli alla luce, i tratti caratteristici e costanti nel tempo, espressi da parole ricorrenti nei versi: la tonalità «calda» della voce (confermata, nel lessico, dal reiterato uso di verbi che al calore fanno riferimento, quali «incendiarsi», «bruciare», «accendere»); la tensione dei sensi, il tatto e la vista in particolare, come strumenti di contatto con il mondo, perfino di conoscenza; l’ansia e l’urgenza di sporgersi verso gli altri da sé (evocate anche da tutti quei verbi che richiamano il viaggio, il movimento); la presenza di Milano, indelebile come lo sono i ricordi dell’infanzia ai quali è associata, spesso in chiave anche solo nominale (i nomi delle strade, di un posto); e infine un sentimento pervadente del sacro, inteso tuttavia come forma di «ebbra e laica inquietudine» piuttosto che in via trascendente, e dunque né più né meno che «attributo della realtà» – di un sacro «a misura d’uomo», si potrebbe anche dire, e cioè di un sacro che si perimetra con la concretezza terrena della quotidianità, delle cose e della vita, nelle sue pene come nelle sue gioie.
È una poesia ricca di temi, quella di Manzoni, e agli elementi individuati da Landini se ne potrebbero aggiungere addirittura altri, sia sostanziali che formali, altrettanto ricorrenti: riguardo il primo aspetto, ad esempio, vi è il tempo che passa, la famiglia (i padri e i figli, su tutti), o il corpo; sotto quello formale, invece, la brevità densissima dei versi, a cui l’incalzarsi spesso paratattico e senza punteggiatura delle parole conferisce il ritmo di lunghi respiri, quasi che lo stesso incedere dei versi presentasse un anelito di quiete, o il frequente rivolgere il discorso a un «tu» che sembra assurgere a un referente ideale e simbolico, agognato, come un assente di cui si avverte la mancanza.

È APPENA poco più che sessantenne, Franco Manzoni, eppure la sua opera poetica – alla quale si affianca, ed è noto, una riconosciuta attività di critico, insegnante e traduttore – è già lunga più di quarant’anni. Naturalmente nel corso di questi decenni l’opera si è anche modificata, come muta ogni cosa, come trascorre la vita (anche la metrica si è leggermente allungata e distesa). Eppure al fondo quel «calore» nella voce è sempre rimasto: quella tensione, non di rado erotica tout court, a vivere pienamente l’esistenza nel suo darsi, qualunque sia, non solo a goderne i piaceri e le estasi ma ad accettarne ogni svolta, anche i dolori più grandi.
E del resto non è altrove che in sé stessa, sembra voler dirci Manzoni, che la vita può trovare la propria consolazione: nei corpi, in un abbraccio, in una mano che ci tiene e che teniamo, in un ricordo al quale rimaniamo e rimarremo fedeli. È anche questa una forma di sacralità, forse la più concreta.