Il teatro napoletano d’autore di oggi non è più quello – e gioco-forza non poteva esserlo – della stagione della sperimentazione e della ricerca degli anni ’70 e ’80 nella quale erano attivi Neiwiller e altri registi e autori della sua generazione e di quella successiva. Eppure la scena teatrale partenopea continua a dare in maniera sporadica e discontinua segnali di vitalità, di originalità, di voglia di misurarsi col sempre intrigante rapporto tra tradizione e modernità. In questo solco si è mosso recentemente Mario Martone che ha ripensato in chiave contemporanea e calato nella realtà dei giorni nostri Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, rendendo i personaggi che il drammaturgo aveva dipinto crepuscolari più giovani e ancora al centro del sistema criminale. E ora con Emone in scena al San Ferdinando di Napoli (fino a domenica), l’attore/autore Antonio Piccolo e il regista Raffaele Di Florio ripropongono l’Antigone di Sofocle in una inedita interessante chiave.

Piccolo, trentunenne napoletano, ha riletto il mito sofocleo di Antigone dalla prospettiva di un personaggio minore, Emone, il promesso sposo della fanciulla.

E ha scritto il testo come saggio finale del corso di drammaturgia diretto da Massimo Maraviglia, che ha vinto la prima edizione del premio P.L.A.TEA., la fondazione che riunisce Stabili e Tric (teatri di rilevante interesse culturale). E poi la pièce è stata messa in scena. La lingua di Emone è un napoletano che evoca Basile ed è arricchito da neologismi e invenzioni del giovane autore, lo spettacolo mostra i personaggi costretti, in un limbo senza tempo, a rivivere e ripetere la loro vicenda da 2500 anni, il tema della disubbidienza di Antigone al volere della legge è visto con occhi originali, come l’utopia di un mondo possibile oltre il mero esercizio linguistico. Ciò che però costituisce il segno più profondo ed esplicativo della valenza (post)moderna dell’operazione sono alcune invenzioni di regia di Di Florio

che si è ispirato a un lunapark di Chernobil, abbandonato e invaso dalle erbacce, un non-luogo, una giostra in disuso, simbolo della circolare ripetitività della storia cui sono costretti i personaggi mentre Antigone è un fantasma sempre presente, che però non compare mai se non come voce di Valentina Gaudini che canta quattro folk songs di Luciano Berio rielaborate da Fabio Vassallo, autore anche delle musiche. Val la pena ricordare che alcuni anni fa un’altra napoletana, la scrittrice Valeria Parrella, propose con un testo per il teatro una sua lettura dell’Antigone con un approccio anche lei moderno e giocato sullo scontro fra il singolo e le leggi umane, fra il volere dell’individuo e i dettami della morale collettiva, ma al contrario dava molto risalto alla presenza della protagonista che vestita di rosso, colore del peccato e della colpa, prende tutto il suo tempo per planare sulla terra, quasi fosse un angelo, una rivelazione, ma al contempo un demone, una rea.

Forse non è un caso che a parte l’Antigone, c’è periodicamente un interesse del teatro napoletano per le tragedie e le commedie greche. Ci sono un feeling culturale, una sensibilità tematica particolari che hanno a che fare con un asse ideale che unisce due aree geografiche, due realtà storiche, due tradizioni teatrali così lontane eppure così vicine per influenze, incisività espressiva, pregnanza semantica del gesto e del corpo.

In quanto ad Emone lo spettacolo vanta anche un’insolita collaborazione produttiva. Il direttore dello Stabile di Torino, che ha ideato il Premio, ha chiesto a quello di Napoli di assumere la produzione esecutiva di Emone, perché è un testo in napoletano, scritto da un napoletano. E così è nata una compartecipazione del Teatro di Torino, il Teatro di Roma, lo Stabile Mercadante di Napoli e la stessa fondazione P.L.A.TEA. Una sinergia che permette allo spettacolo di non morire a Napoli, ma di toccare altri teatri italiani e già nel mese di aprile lo si potrà vedere a Roma (dal 10 al 15), a Bologna (dal 17 al 22), a Torino (dal 24 al 29).