«Perché la memoria degli altri venga così a rafforzare e a completare la nostra, bisogna anche, abbiamo detto, che i ricordi appartenenti a questi gruppi non siano senza relazione con gli avvenimenti che costituiscono il nostro passato.» Questa citazione – apparentemente semplice, particolarmente meditata, tratta da uno dei capolavori del grande sociologo francese Maurice Halbwachs, studioso troppo poco ricordato per il suo innovativo e proficuo lavoro sulla memoria sociale – sembra poter essere spendibile come una sorta di chiave di lettura (una delle tante possibili) per comprendere e apprezzare meglio l’operazione de Il film del secolo, bellissimo libro-conversazione a tre fra Rossana Rossanda, Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, «confronto/scontro di sguardi e biografie diversi» tra «memorie all’opera e la storia del grande schermo nel suo specchiarsi con la realtà e nel prendere parte ai grandi conflitti».

Ora, come anticipato, dopo la lettura, il richiamo al pensiero di Halbwachs potrebbe essere una delle diverse possibilità attraverso cui presentare il volume, e magari – giustamente, si può aggiungere – nemmeno la prima che possa venire in mente. Scorrendo le pagine, leggendo l’indice non si può difatti non notare come alcuni titoli dei capitoli restituiscano già di per sé un certo tono saggistico-teorico proprio del libro, nonostante sia appunto “solo” una conversazione: penso per esempio al capitolo sei, La parola e il “visibile”; oppure al sedici, Divinità globali; oppure all’ultimo, Contro Cleopatra. Allo stesso modo, altri titoli di altri capitoli rimandano senza dubbio e più marcatamente alla storia del cinema e – attraverso una certa contiguità – alla storia tout court: per il primo caso, basti pensare a titoli come quelli del capitolo nove, Il gusto del sake (lo stesso di un grande film di uno dei cineasti più importanti di sempre, Ozu Yasujirō), o del capitolo tredici, Incantati da Buster Keaton, travolti da Orson Welles; per il secondo caso invece si può far riferimento al capitolo due, Dalla Russia con amore, oppure al dodici, Fotogrammi di piombo. E tuttavia, nonostante le molte possibili suddivisioni che si possono fare o soltanto ipotizzare (in un gioco non infinito ma certamente duraturo), qualora si volesse tentare di individuare una unità di misura riscontrabile in tutte le parti del volume, un rinvio al tema della memoria sembrerebbe – giocoforza – un passaggio obbligato.

All’inizio dell’introduzione, Rossana Rossanda scrive: «Quarant’anni di lavoro a pochi metri l’una dagli altri due fanno più che un’amicizia. Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri si annidarono fin dagli inizi in uno stanzino del “manifesto”: un bel ragazzo biondo e una brunissima dal viso bianco un poco orientale, curvi sulle prime schede d’archivio del giornale, che allora non si occupava di cinema né in genere di cultura.» Rossanda (fondatrice del giornale e firma storica), assieme a Silvestri e Ciotta (firme storiche), nel contesto del libro formerebbero – è ancora Halbwachs a dare preziose indicazioni al riguardo – quello che si potrebbe chiamare come un vero e proprio di “quadro sociale” attraverso cui la loro conversazione legittimerebbe in senso non arbitrario e non opinionistico – in sostanza – l’ipotesi di parlare della manifestazione di una certa memoria collettiva, in quanto non sinonimo di passato ma modo di relazione fra più soggetti, nel tempo e nel medesimo spazio socio-culturale. In merito, sempre dalla sua introduzione, val la pena citare ancora la Rossanda, sul cinema come argomento di tale modo: «Se definiamo “inconscio collettivo” alcune pulsioni selvagge, le passioni in senso spinoziano “patite”, dobbiamo riconoscere che il cinema vi gioca a fondo, impattando su di noi per il peggio e, più raramente, per il meglio. Nessuna comunicazione è altrettanto potente sulle viscere, nessuna altrettanto suggestiva quindi anche strumento “politico”, direttamente o indirettamente, in modo esplicito o insinuante. Cosa che induce a riflettere su quel che definiamo “spontaneo” o “popolare”».

A questo punto però, occorre precisare qualcosa in merito al senso della conversazione a tre del volume. Forse, nella storia umana, non c’è mai stata una sorta di “arte del conversare” di per sé stessa, ma certamente conversare è da sempre un atto di conoscenza, una filosofia e anzi – almeno storicamente parlando – è la filosofia. Così si può dire che Il film del secolo si presenti ai lettori (vecchi e nuovi, senza distinzioni) come un discorso, un sapere all’opera, un’azione che non indugia sul “come eravamo” e che non indulge al rischio – classico, per molti libri del genere – di chiuse poetiche del ricordo. Piuttosto l’impressione persistente è che la trama fra le tre voci in dialogo renda la rammemorazione di un certo passato condiviso a partire da una sua accezione spaziale – come un territorio – dove le riflessioni condotte da ogni voce sono come ricognizioni verso zone dimenticate. Oppure ignote.

Ma in fondo, quanto detto, non mette in luce nient’altro che i meccanismi di una memoria storica al lavoro, dove le scoperte proprie dell’ invenzione critica sono sempre – per così dire – “proiezioni del futuro”.