Il nome di Julien Gracq balzò agli onori della cronaca nell’inverno del 1951, in occasione del rifiuto opposto dall’autore al conferimento del prestigioso premio Goncourt per Le rivage des Syrtes, sorprendente romanzo pubblicato da José Corti, piccolo editore di origine corsa che aveva stampato le opere di un manipolo di autori surrealisti. Dietro quello strano pseudonimo, coniugante un patronimico di ascendenza stendhaliana e un cognome che sembra rifarsi al termine cacofonico dei Gracchi, si nascondeva in realtà un oscuro insegnante di storia e geografia nei licei, Louis Poirier (1910-2007), originario della Loira, che, mantenendo fede alla sua figura di studioso schivo e appartato, declinò in seguito anche il ruolo di Accademico di Francia. Il suo esordio era avvenuto nel 1938 con Au château d’Argol, romanzo rifiutato da Gallimard e stampato da Corti – che diventerà a pieno titolo l’editore di tutti i libri di Gracq –, denso di atmosfere incantate e sospese che avevano suscitato l’interesse di André Breton e che, nel nostro paese, sarà incluso non a caso nella collana di letteratura fantastica «Il Pesanervi» di Bompiani.
Erano seguite varie opere, fra cui un altro romanzo, Un beau ténébreux (1945), e il pamphlet La Littérature à l’estomac (1950), polemica presa di distanza dal malcostume letterario dell’epoca che conserva, tuttavia, le stimmate inequivocabili dell’attualità. Considerato l’ultimo dei classici, Gracq ha avuto il raro privilegio di essere incluso, ancora vivente, nella Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard che raccolse, in due volumi, le sue Œuvres complètes. La sua prosa è stata definita da un critico «più esatta di Chateaubriand, più musicale di Stendhal, più sensuale di Proust». E poi un ventaglio di ascendenze eterogenee: Balzac, Poe, Verne, il romanzo gotico, suggestioni dal Graal, da Splengler, l’idiosincrasia per Sartre e l’esistenzialismo, la scoperta di Sulle scogliere di marmo di Jünger di cui diverrà amico.
Sull’onda dell’eco suscitata dalla polemica a livello internazionale, Mario Bonfantini approntò nel giro di breve tempo la versione di La riva delle Sirti, che venne accolta nella «Medusa» mondadoriana nel 1952, ed è stata riproposta nel 1990 da Guida e nel 2017 da L’orma editore. L’orma torna ora a occuparsi di Julien Gracq ospitando nel suo catalogo Libertà grande (pp. 152, € 17,00), che raccoglie una serie di inediti che si configurano alla stregua di raffinati poèmes en prose. La traduzione di Lorenzo Flabbi, che aveva già curato Acque strette per lo stesso editore nel 2018, si segnala per precisione ed eleganza, anche se si sente la mancanza di una nota critica che contestualizzi la vicenda dell’autore francese, tutto sommato ancora poco conosciuta nel nostro paese nonostante le molte traduzioni allestite (da ricordare in particolare La penisola per Einaudi, Una finestra sul bosco per Serra e Riva e Letterine per Theoria, titoli purtroppo esauriti da tempo immemorabile).
Libertà grande, che uscì originariamente nel 1946, con un’illustrazione di André Masson nel frontespizio ora riproposta da L’orma, costituisce un titolo atipico nella produzione di Gracq. Si tratta di frammenti composti tra il ’41 e il ’43, poi arricchiti dall’autore nel corso di oltre un ventennio, essendo le successive ristampe della raccolta corredate da un nucleo di nuovi testi. Viene a costituirsi così un campionario di prose che risentono, per la forte valenza icastica e visionaria, degli esiti di certo surrealismo, anche se solo in parte condizionato dalle tecniche canoniche del movimento, come quella dell’écriture automatique. Nella scrittura di Gracq domina sempre un intento progettuale intorno al quale ruota un mondo fantasmagorico che alimenta in maniera morbosa la psicologia dei suoi personaggi. Le trame stesse dei suoi romanzi sono scheletriche, spesso inesistenti, essendo fagocitate dal senso dell’attesa che assume i connotati di una quête metafisica. Alcuni brani sembrano estrapolati da un particolare contesto narrativo e isolati sulla pagina, quasi a formare figure di geometrica perfezione presupponenti un labor limae assiduo e rigoroso.
Perdersi in queste pagine è come addentrarsi in un carcere piranesiano, salire e scendere scalinate che costeggiano patiboli edificati ad altezza di nuvola e non portano da nessuna parte, una ragnatela di direzioni abbarbicate al nulla davanti a cui l’autore sembra recalcitrare, ebbro solo della propria atavica irresolutezza a scegliere di non scegliere. A Gracq non interessa la salvezza ma il budello di direzioni tese a fargli perdere l’orientamento, la rappresentazione di chi pencola nel vuoto con l’illusione di poterlo defraudare, il volto illividito dal ricordo dell’angelo che si contrappone a san Giuseppe in un dipinto di Georges de La Tour relegato in un museo di Nantes, la cui scoperta durante le peregrinazioni dell’infanzia viene magistralmente descritta in Lettrines.
La Libertà grande è quella di muoversi sulla pagina senza costrizioni, divagare lungo il crinale innevato di paesaggi mozzafiato al fine di descrivere «le loro croste di pietra» mentre «a ogni detonazione l’arcivescovo libera al volo piccioni dalle maniche». Si legge in Lettrines: «Da parte mia, mi limito modestamente a rivendicare una libertà illimitata». Certo, la lezione del surrealismo è quanto mai presente (a Breton l’autore dedicherà un’importante monografia e sarà sempre legato a lui da un rapporto di amicizia che sfocerà nella collaborazione a Farouche à quatre feuilles, edito da Grasset nel 1955, firmato con Lise Deharme e Jean Tardieu), ma si giustificano anche le suggestioni ottocentesche da Nerval, Baudelaire, Rimbaud, Huysmans, finanche Wagner: «Oggi è possibile amare Wagner solo malgrado Wagner». Ci si addentra nelle cavità ctonie per carpire ai dèmoni la voce, ci si avventura nei meandri dell’ornitomanzia, dell’aruspicina con lo sguardo fiero di un àugure etrusco. Gracq riesce a coniugare le scorribande nelle lande inesplorate della psiche con la superba grafìa di un amanuense, con la perizia di un orafo merovingio.
Ogni paesaggio è rappresentato con la meticolosità del geologo e la suggestione del rabdomante: le alghe formano come, in un test di Rorschach, il disegno mellifluo di un volto muliebre (Isabelle Élisabeth), conservando al tempo stesso l’evanescenza di un acquarello di Turner. Si cammina come funamboli sugli argini, inebriandosi del blu delle scogliere bretoni, delle barene normanne, immortalati sulla pagina «come il dagherrotipo di un progenitore nella sua bella camicia da ghigliottina in un album di famiglia». Scrittura come redenzione, come derelizione. Lo stilo dello stile che fruga fino all’osso, «parola ridiventata strumento di magia» (Eneas Balmas). Si rinuncia al possesso di ciò che si descrive, inneggiando alle «parietarie lungo gli infissi ammuffiti delle finestre», a una manciata di costellazioni in cieli di silicio. L’Unità originariamente sintetica dell’appercezione, come si intitola emblematicamente un testo («Questa mattina ho avuto il piacere di salutare il poeta Francis Jammes, al volante del suo cilindro a vapore»), rimanda a una visione ascetica, frugale dell’esistenza, in cui anonime statue di Giovanna d’Arco convivono con il cammeo di una pescatrice di gamberi, suscitando un’eluardiana immagine di «donna prolungata da uno stendardo».
La testa recisa di Robespierre ha il candore del collo di Giovanni Battista, nel Convento di un Pantocratore un mare-Landru è paragonato a «un avvelenatore di paese assorto tra le sue fialette». Il «più grande paesaggista di tutta la letteratura francese», secondo la definizione di Michel Tournier, trova qui la maniera per sbizzarrire l’estro dell’antico decifratore di mappe che, attraverso una galleria infinita di trompe l’œil, passa dal deserto ai laghi ghiacciati, dalle foreste di noccioli a un «Ahaggar calcinato di botteghe cieche», con il solo proposito di riconoscere in un altrove inesistente l’ago magnetizzato della sua voce inimitabile.