In una pagina dell’Uomo e il divino, María Zambrano scrive: «Le rovine ci offrono l’immagine della nostra segreta speranza in un punto di incontro tra la nostra vita personale e quella storica». Questa riflessione della filosofa spagnola potrebbe risuonare come il basso continuo dei racconti da cui è composto l’ultimo libro di Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute (nottetempo, traduzione di Flavia Pantanella, pp. 252, € 19,00). Nata nel 1980 a Greifswald, cittadina universitaria del Nord della Germania affacciata sul Baltico, Schalansky è esperta di storia dell’arte e di design, e oltre che scrittrice è insegnante di tipografia. Da queste rapide note biografiche, non è difficile comprendere come il fulcro della sua ispirazione possa derivare dal fascino per gli oggetti e la loro storia, e in particolare per l’oggetto-libro. Il suo primo lavoro, infatti, è stato un curioso volume di tipografia dal titolo Fraktur mon Amour (2006) dedicato all’uso e all’evoluzione dei caratteri gotici, anche se il vero successo Schalansky l’ha ottenuto con l’Atlante delle isole remote (Bompiani 2013), long seller tanto nella versione rilegata quanto in quella tascabile (2015).
L’Atlante è un libro unico nel suo genere perché, dietro l’apparenza di raccolta di «mappe commentate» dei luoghi più desolati della terra (o meglio, dei mari), si rivela come uno scrigno di brevi e fulminanti narrazioni ispirate alle isole catalogate. Il gusto infantile per l’avventura e l’evasione, che alberga in ogni lettore, è temperato in quei rapidi racconti da una matura consapevolezza del limite e della finitezza, perfettamente compendiata dal titolo dell’introduzione al libro: Il paradiso è un’isola. Anche l’inferno.
Nelle stesse pagine, Schalansky riporta un aneddoto degli anni della sua formazione da designer paradigmatico di un’idea di libro e prefigurante la tonalità emotiva sottesa all’Inventario. In un pesante armadio per grafici, scrigno incantato agli occhi della futura scrittrice, la sua professoressa di tipografia conservava «l’edizione ormai obsoleta di un compendio con il titolo più promettente che un libro possa avere: Ti dico tutto». E infatti, a conferma che non si trattava di un’esagerazione, il volume conteneva proprio di tutto, da rassegne sui tagli dei capelli e della barba, ad analisi della dentatura umana, a curiose tabelle ravvicinate che enumeravano in una stessa pagina, ad esempio, dati del Concilio ecumenico insieme ai più famosi attentati dell’età moderna, «circostanza che aveva reso possibile il meraviglioso doppio titolo: “Concilio/Attentati”». Ecco dunque emergere, da questo ricordo, un fascino per l’elenco che per Schalansky va oltre la semplice vertigine dell’enumerazione, e rappresenta invece il tentativo di abbracciare la caotica totalità, di salvarla dall’oblio nell’architettura rassicurante e amata di un libro.
La cura per tale forma (nella sua interezza di «contenitore» e «contenuto») e quella stessa angoscia della contingenza presenti nell’Atlante si ritrovano nell’Inventario, che approfondisce questo Leitmotiv focalizzandosi sul tema delle «rovine» o, per essere più precisi, di quegli oggetti, opere, edifici (e addirittura animali) che sono spariti dal mondo e dalla storia lasciando di sé solo poche tracce. Schalansky ne prende in esame dodici – tra di essi, per citarne alcuni, il primo film di Murnau, la Villa Sacchetti di Roma, i disegni topografici della luna del selenografo Kinau e la tigre del Caspio – e a ognuno dedica un racconto di lunghezza uniforme (sedici pagine) preceduto da un’immagine stampata con inchiostro nero lucido su fondo nero opaco. Se le immagini restituiscono al lettore l’esperienza di un’intuizione fugace, di un avvistamento nel buio, i racconti sono invece vividi e intensi, anzi riflettono lo sforzo quasi disperato dell’autrice di far parlare con la più ampia ricchezza di dettagli quelle cose che ormai sono destinate al silenzio. Diversi nella forma narrativa – si va dall’aneddoto autobiografico, alla prosa di tono saggistico, al monologo interiore, alla favola ucronica –, tutti quanti condividono uno sguardo che è un primo piano stretto sul soggetto da cui traggono ispirazione. In questo senso, rispecchiano perfettamente l’affermazione di María Zambrano riportata sopra, in quanto si adoperano a dare voce a quell’anima individuale delle rovine che le riscatta dall’essere un mero segno del trascorrere del tempo.
È curioso però evidenziare come in questa piccola enciclopedia dell’impermanenza, i cui oggetti sono in gran parte culturali, le pagine più ispirate siano quelle che raccontano la natura, come nel capitolo dedicato alla tigre del Caspio – la cronaca della lotta di uno di quei felini con un leone, nel Colosseo della Roma di Claudio – o, ancora di più, in quello che narra una passeggiata dell’autrice nei dintorni della sua città natale in direzione del porto, un tempo ritratto da Caspar David Friedrich in un dipinto andato distrutto. Se questo fatto può sembrare una curiosa eterogenesi dei fini, occorre in
vece pensare che la natura è la perfetta rappresentazione di quel movimento di dimenticanza e rigenerazione che caratterizza anche le tracce dell’uomo. Anzi, per quali e quanti siano gli sforzi per salvare queste tracce, esse saranno sempre ricomprese in quel movimento (perché da ultimo gli appartengono), ma non disperdendosi del tutto, anzi conservandosi in parte in altra forma. E qui torna di nuovo utile la riflessione della Zambrano, che sempre nell’Uomo e il divino completa in questo modo la sua meditazione: «Così le rovine vengono ad essere l’ultima, compiuta immagine del sogno che anima nel profondo la vita umana, di ogni uomo: che alla fine del suo patire qualcosa di suo tornerà alla terra per continuare indefinitamente il ciclo vita-morte e che qualcosa scamperà liberandosi ma permanendo, poiché tale è la condizione del divino». Verrebbe da pensare, muovendo oltre questa riflessione, che quel «divino» scampato al ciclo vita-morte non sia altro che ciò che è destinato a finire nel libro, e da qui forse deriva la devozione di Schalansky alla sua forma, che diventa in questo modo la forma di un tempio. Certo, l’autrice tedesca è consapevole che quello indicato dalla Zambrano è in fondo un sogno, che i libri sono solo altri «vani tentativi» per adempiere al dovere di «archiviare il mondo e custodire la coscienza dell’universo», ma lo stesso non esita a proclamare, quasi come una poetica personale, la superiorità del libro sugli altri mezzi di comunicazione, vecchi o nuovi: «Grazie alla completezza della sua realtà fisica, in cui testo, immagine e fattura si fondono perfettamente, (il libro) promette di ordinare il mondo come nessun altro, e a volte perfino di rimpiazzarlo».