Le migrazioni non sono state fermate neanche dalla pandemia in corso. I blocchi alla mobilità non hanno interdetto totalmente gli spostamenti per motivi di lavoro o la fuga da guerre e violenze. Il mondo continua a muoversi, seppure con forti limitazioni non dipendenti solo dalla necessità di limitare i contagi, e i dati statistici lo attestano. Nel 2019, le Nazioni Unite stimavano nel 272 milioni di emigranti-immigrati internazionali nel mondo, mentre quasi 80 sono i milioni di persone costrette a muoversi, divenute rifugiate, richiedenti asilo o sfollate interne, secondo l’Unhcr.

CERTO, L’UMANITÀ nella sua grandissima maggioranza non migra, ma l’ampiezza dei numeri di chi lo fa insieme alla crescita nel tempo di questi numeri ci dice che le migrazioni internazionali sono un fenomeno centrale delle società in cui oggi viviamo.
Di fronte a questa esperienza diffusa, a diffondersi è anche il razzismo, attivo sia nelle politiche e nei discorsi degli Stati di immigrazione, sia nei sentimenti e nelle emozioni presenti nelle società.
È con questa densità conflittuale che si confrontano gli autori dei testi raccolti da Andrea Cavalletti e Gianluca Solla nel libro L’avanguardia dei nostri popoli. Per una filosofia della migrazione, edito da Cronopio (pp. 166, euro 13). Partendo da un’affermazione di Hannah Arendt scritta nel 1943 nell’articolo We Refugees, l’obiettivo fondamentale del volume è quello di ragionare sui significati politici della proliferazione della condizione di rifugiato e migrante, che mette in discussione il concetto di popolo e delle categorie ad esso solitamente collegate, quali quelle di Stato, cittadinanza, identità, integrazione, appartenenza, terra.
Ogni saggio si confronta con questa incrinatura in corso dei concetti fondamentali della modernità politica e lo fa da specifiche prospettive disciplinari. Fabio Raimondi, accompagnato dalle imprescindibili analisi sulle migrazioni di Abdelmalek Sayad, rilegge il concetto di integrazione, riconoscendone la costitutiva irrealizzabilità in uno Stato che pensa i non nazionali come degli incompleti, dei soggetti che, con tutti i loro sforzi, non potranno mai diventare fino in fondo come i nazionali.

SOGGETTI, in definitiva, altri, come altro sono stati l’Algeria e la sua popolazione nella filosofia francese, secondo la ricostruzione proposta da Alberto Toscano. Un altro prima riconosciuto come oggetto della violenza coloniale e, poi, associato alla figura problematica del migrante, che non è necessariamente quella figura antagonista che una parte della filosofia francese va ricercando.
L’alterità è, dunque, estraneità in molti contesti. È quanto evidenziato da Andrea Rapini con lo studio del caso storico della revoca della cittadinanza da parte del Fascismo ai cosiddetti «ebrei stranieri».

Sulla questione della radicale alterità si confronta Andrea Cavalletti con un saggio che parla di Furio Jesi e delle mitologie del sangue e della razza, indagando la sua tesi sulle continuità del nazifascismo con il neofascismo, alimentata da una macchina produttrice di miti sulla superiorità di alcuni popoli, su cui si innesta continuamente una visione antisemita: la visione del diverso per eccellenza e, quindi, bizzarro, risibile, turpe, secondo le parole di Jesi.

POPOLO storicamente in movimento quello ebreo, in questo senso popolo che si fa migrante, senza e oltre il territorio e, dunque, non demos (popolo che si insedia) ma ethnos (popolo con comune appartenenza). È questa coppia concettuale all’origine di un doppio modo di pensare il popolo, come chiarito da Gianluca Solla in «I persiani a Roma» confrontandosi con Pasolini e il suo Poesia in forma di rosa, in cui, nel 1963, si parla dei regni della fame che dissolvono le etnie, dunque le appartenenze fisse per fare spazio al divenire, mentre in un altro saggio, scritto da Pierandrea Amato, si ricostruiscono le «disavventure del Demos», ancora nel solco della riflessione di Pasolini, continuata, poi, con l’opera Appunti per un’Orestiade africana, studiata da Federico Leoni.

Un insieme di immagini poetiche quelle di Pasolini che anticipano i tempi in cui viviamo, che sono anche i tempi dell’intrappolamento delle persone nei campi formali e informali come quello di Idomeni in Grecia, di cui parlano Nicola Turrini e il film documentario girato nel 2016 nel campo stesso da Maria Kourkouta e Niki Giannari dal titolo Des spectres hantent l’Europe.

IL LETTORE si confronta con le disuguaglianze e condizioni di vita estreme che si determinano in una parte delle migrazioni, le quali rendono impossibile un asilo fertile al quale si richiamò Hannah Arendt e con le cui possibilità si confronta il testo di Fabrice Olivier Dubosc, «L’esilio sovrano», che vede nella violenza dell’Antropocene la necessità di determinare delle vie di fuga fondate su nuova alleanze, a partire dal fatto di essere insieme in un comune pianeta. Perché, come rimarcano Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro nel testo conclusivo di questo libro-viaggio, «la fine del mondo non è la fine di tutto».