Deleuze non ha dubbi: se intendiamo davvero divenire-con gli animali è necessario farsi catturare da «una relazione animale con un animale». Ed è per l’appunto una relazione del genere quella che insegue Henry Hoke in Alla gola (splendida traduzione di Valentina Maini, Mercurio, pp. 217, euro 17), relazione che lo lega indissolubilmente al protagonista di questa favola speculativa che interseca, con invidiabile sapienza, antispecismo, ecologia e violenza sociale.

LA TRAMA è presto riassumibile: un puma, che in seguito a un delicato incontro con un’adolescente vegana diventerà anche una puma, vive sulla collina che la principale fabbrica di ideologie normalizzanti dell’Occidente, Hollywood, ha occupato con la sua gigantesca scritta. Lì, nascosto, impara a conoscere gli umani e il loro linguaggio («un giorno sarò in grado di scrivere ciò che state leggendo») fino a quando un incendio doloso, appiccato da un gruppo di malviventi per distruggere un accampamento di senzatetto, si trasforma nella fine del suo mondo («l’unico futuro è il fuoco») e lo spingerà verso Los Angeles in una sorta di odissea (in)umana.

Molto più difficile, invece, è restituire la potenza della scrittura di Hoke. E qui, ancora una volta, vale la pena di appoggiarsi a Deleuze, quando afferma che scrivere con gli animali non è scrivere di loro o su di loro, ma come loro, per esempio, dato che il (o la?) protagonista «come un felino si muove, oppure dorme pesantemente». E, in effetti, è proprio lungo questi due assi di movimento che si snoda il romanzo, alternando fasi di repentini moti concitati a momenti di sognante sospensione riflessiva. E proprio in questo risiede la sconcertante bellezza della scrittura di Hoke, una partitura di frasi brevi e prive di punteggiatura, che, sfumando in una direzione o nell’altra, si modula, quasi per magia, e si fa appostamenti invisibili, passi felpati o balzi improvvisi.

QUESTA INUSUALE PARTITURA, come è il caso di tanta letteratura ecotransfemminista (dalle farfalle monarca di Donna Haraway ai polpi scrivani di Vinciane Despret) è resa possibile dal ricorso a quello che Karen Barad chiama «antropomorfismo strategico», ossia un «utilizzo critico dell’antropomorfizzazione per abbattere le strutture arrugginite e tossiche, secondo le quali l’umano si accaparra di tutte le “cose belle”: l’agency, l’intenzionalità, la coscienza, l’immaginazione».
Così Hoke, vero e proprio traditore della propria specie, si lascia alle spalle il peccato originale dell’antropomorfizzazione, che curiosamente accomuna la scienza occidentale e l’animalismo classico, e fa sì che un puma, parlando, trasformi la sua scrittura (di chi? vien da dire a questo punto) in un blocco di divenire in cui ciò che conta è l’incessante farsi/disfarsi/rifarsi delle relazioni.

A loro volta, trama, scrittura e relazioni si innestano sulla linea di fuga che da cima a fondo, o meglio, da capo a coda attraversa l’intero romanzo: la trasformazione del bisogno in desiderio. Il puma che all’inizio della storia afferma: «non ho mai mangiato un uomo ma oggi potrei farlo» perché «sento fame» alla fine, riconosciuto chi ha appiccato l’incendio, si rende conto che la volontà di aggredirlo non è più dettata dalla fame: «non si tratta di bisogno / no questo è desiderio».
E se il bisogno è questione personale da acquietare seguendo il principio di piacere, il desiderio è invece groviglio di relazioni, affetti e politica, assemblaggio che non esclude la resistenza e che non teme di dar corso a una salvifica pulsione di morte: «dico qualcosa / sembrano parole / non è quello che vogliono sentire».