Cesare Segre ci ha lasciato in punta di piedi, coerente con il suo stile riservato e l’abituale discrezione. Il che non basta a nascondere il grande vuoto che lascia dietro di sé. In queste occasioni gli amici, i colleghi, gli allievi, gli ammiratori si mettono in cerchio per un ultimo addio e intrecciano fra loro ricordi personali (anch’io ne avrei parecchi, e molto cari) e riconoscimenti all’importanza dei suoi moltissimi lavori di filologo, critico e scrittore e all’esempio, anche etico, che ci consegna la sua intensa attività di studioso, professore, uomo che ha fatto coerentemente la sua parte nel difendere i valori, spesso minacciati, della scuola, dell’Università, della nostra società civile.

L’omaggio più convincente lo abbiamo avuto, fresco fresco, dal «Meridiano» a lui dedicato, per generosa iniziativa di Renata Colorni. Il libro, di cui abbiamo parlato in «Alias» poche settimane fa, intitolato Opera critica (Mondadori, gennaio 2014), è stato curato da due suoi allievi, Alberto Conte e Andrea Mirabile, l’uno filologo romanzo, l’altro studioso della letteratura; è stato attentamente progettato e seguito, nelle scelte e presentazioni, da Segre stesso ed è uscito preceduto da un ampio e bel saggio introduttivo di Gian Luigi Beccaria. Quel libro rappresenta in modo esemplare la ricchezza e varietà di interessi di Segre, che non sono mai stati limitati al pur importantissimo lavoro del filologo (edizioni critiche della Chanson de Roland e dell’Orlando furioso), ma hanno spaziato dalla teoria letteraria alla linguistica, dallo studio di parecchie letterature alla critica anche militante della produzione letteraria contemporanea, dall’intervento anche polemico alla scrittura in proprio, con opere autobiografiche come Per curiosità (Einaudi 1999), reportage di viaggio, e prove narrative molto vivaci, raccolte nel 2010 da Einaudi nel volumetto Dieci prove di fantasia.

Il ritratto che esce da quel Meridiano (e dai tanti altri scritti di Segre) è quello di un erede della grande tradizione dell’illuminismo piemontese e lombardo. Rigore intellettuale, fondazione e sostegno di nuove discipline (la teoria letteraria, la semiotica, lo strutturalismo antropologico), fiducia nella ragione, direzione di riviste, accademie e centri di ricerca, forte impegno nell’insegnamento, intensa attività editoriale, assidua presenza sui giornali, dal «Giorno», alla «Stampa», al «Corriere della Sera», militanza civile (dimostrata fra l’altro dal «Manifesto democratico» del 1994, promosso insieme a Corrado Stajano e Raffaele Fiengo, al tempo della discesa in campo di Berlusconi).

Segre ha insegnato per molti anni a Pavia e ha sempre vissuto a Milano, ma ha poi frequentato, per tenere corsi e conferenze o partecipare a convegni, mezzo mondo, soprattutto nel continente americano. Il rapporto Pavia-Milano (analogo a quello di altre realtà universitarie italiane, come Padova-Venezia o Pisa-Firenze) rappresenta simbolicamente due momenti e luoghi di lavoro: la concentrazione sull’insegnamento, nel luogo più appartato, e l’immersione nella società complessa, che è propria di una città dinamica come Milano.

Segre ha anche ricevuto, dall’eredità illuministica, il gusto della collaborazione intellettuale e della conversazione con una cerchia larghissima di amici e compagni d’avventura. Fra questi, grandi personaggi del mondo intellettuale europeo e americano – Jakobson, Jauss, Lotman, Prieto, Rico – e poi gli amici più vicini: Contini, Avalle, Isella, Eco, e poi le donne con cui ha intrecciato una amicizia umana e un dialogo intellettuale: Maria Corti (confidente e alleata nell’apertura alla semiotica e nello studio dei metodi della critica), Luciana Stegagno Picchio (guida e complice nell’esplorazione a fondo delle letterature iberiche), Clelia Martignoni (complice nell’allestimento di un’importante antologia per l’insegnamento letterario nelle scuole superiori), Maria Luisa Meneghelli (la moglie, filologa romanza anche lei, che l’ha spinto, insieme con Jauss, a sondare le potenzialità della «critica della ricezione», integrando il prevalente interesse per lo studio incentrato sul testo). Negli ultimi anni Cesare e Maria Luisa costituivano una coppia inseparabile: li ricordo insieme a Zurigo, a Roma nei saloni dei Lincei, a Villa Vigoni sul lago di Como. È simbolico il fatto che il loro indirizzo di posta elettronica presentasse i loro due cognomi accoppiati, senza neppure un trattino o un puntino per separarli.

Di recente, l’amico Darko Suvin, parlando di Cesare Segre, mi ha raccontato di un viaggio in macchina da Milano a Pavia, con Segre al volante, che guidava secondo lui in modo spericolato. Faccio fatica a immaginarlo, anche se è vero che le persone al volante di una macchina possono trasformarsi e rivelare aspetti nascosti del proprio carattere. Preferisco pensare che non tanto di spericolatezza si trattasse, ma di espressione di un aspetto del suo caratteretenuto di solito sotto controllo: la voglia di conoscere, vivere e sapere (quella che lui ha poi chiamato «curiosità»), l’effervescenza intellettuale, il mai del tutto appagato desiderio di allargare la geografia delle sue letture, dei suoi viaggi e delle sue esplorazioni di sempre nuove aree dell’attività umana, di nuovi luoghi e continenti.

Il vuoto che Segre lascia dietro di sé è grande per gli amici, gli allievi, per tutta la comunità intellettuale non solo italiana, ma lo è, in particolare, e difficilissimo da colmare, per la moglie Maria Luisa, alla quale deve andare il nostro pensiero.