Siamo rimasti in pochi a difendere lo spirito pianificatorio dell’urbanistica, una disciplina travolta dalla bufera deregolativa, accusata di rigidità, vincolismo, di essere espressione di una statualità incombente, freno alla creatività animale del capitalismo finanziario lanciato in azzardi immobiliari. Cosa sia successo dopo lo vediamo ben chiaro nel disordine urbano, nel disastro paesaggistico, nella rovina del patrimonio culturale, nel dissesto idrogeologico, nella crisi da sovrapproduzione che dall’edilizia si è rovesciata sull’intera economia. Ma tutto ciò non conta, non è sufficiente a persuadere decisori e poteri economici che il territorio non è il mastello d’oro a cui attingere a man bassa, non può restare in balia delle mire speculative travolgendo spazio pubblico e diritti collettivi.

UN PERCORSO contorto quello della pianificazione, irto di ostacoli e contrapposizioni, successi e fallimenti, che dagli anni ’80 viene screditato dal neoliberismo diventato dottrina assolutistica, che trasforma l’urbanistica in tecnica al servizio della rivalorizzazione fondiaria e della rendita.
Miserie e splendori dell’urbanistica, che Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra affrontano con un velo di nostalgia ma implacabile sguardo critico e fiduciosa aspettativa di rinascita, nel libro appena uscito per i tipi di Derive e Approdi, con prefazione di Piero Bevilacqua (pp. 192, euro 17).
Non che l’urbanistica, come ricostruisce Scandurra, anche quand’era praticata in senso progressista ed equilibratore, abbia prodotto un panorama del tutto roseo, ma lo sforzo di mediare il conflitto tra istinto predatorio privato ed equità ha dato frutti significativi sino alla fine degli anni ’70, quando rappresenta un’espressione del welfare e del garantismo universalistico dello stato sociale.

Anima la speranza di redistribuzione attraverso la qualità e le prestazioni territoriali. E traduce l’intento «riformista» in una serie di norme che offrono strumenti per bilanciare, in qualche misura, la crescita distorta dalla rendita e dai grandi profitti. Le matrici epistemiche deboli della disciplina, a suo parere «orfana di padri», minano la vicenda urbanistica italiana, di cui ripercorre le tappe dal primo trentennio del secondo dopoguerra, entusiasmante e fecondo benché contraddittorio, a quando si trasforma in «fiancheggiatrice del neoliberismo» e in questo ruolo ridefinisce la città «da luogo di convivenza tra diversi, a luogo di uno spregiudicato sviluppo consumatore di suolo e oggetto-vetrina del mercato mondiale».

FENOMENI, precisa Bevilacqua in Prefazione, che vanno «ascritti alla responsabilità non tanto e non solo dell’urbanistica in quanto disciplina e sapere, ma all’urbanesimo in quanto processo storico…, lo svuotamento di cultura e di valori simbolici … è l’esito di una nuova fase del capitalismo del nostro tempo. È questo modo di produzione che va in cerca, come un insonne affamato, di continua valorizzazione del danaro».

Ilaria Agostini, nella seconda parte, se da un canto completa il quadro del regresso dell’urbanistica odierna, nazionale e regionale, dall’altro presenta quei momenti di «urbanistica resistente» da cui può germogliare una visione rinnovata del nesso reciso tra ambiente e società. Il filtro attraverso cui svolge la riflessione è quello ecologista, esplorando le matrici teoriche di «modelli di vita durevoli ed evolutivi». A partire dalle idee di comunità locale, di microterritorialità, di sfera «bioregionale, scala ideale per il conseguimento dell’autodeterminazione», di «paesaggio bioculturale» in grado di «leggere le relazioni tra elementi naturali e culturali, tra assetti storici e idee di futuro, tra contesti spaziali e dispositivi simbolici». Peccato in Italia la relazione tra urbanistica e pensiero ecologista sia distopica («urbanistica versus ecologia» titola Agostini), uno iato che porta al travisamento nella sola finalità economica, green naturalmente.

MA A UN’UTOPIA che si è slabbrata e dissolta i due autori contrappongono nelle conclusioni una speranza: un’ utopia moderna, che «non va cercata in un altrove mitico mentre il mondo si avvia verso l’autodistruzione. L’utopia moderna è fatta di buone pratiche quotidiane che già avvengono nella nostra società in mutamento: episodi di solidarietà, nuovi sistemi energetici, partecipazione dei cittadini, pratiche virtuose, nuove forme di finanza, microcredito, monete locali». Vogliamo fortemente essere fiduciosi e sperare.