Giù all’inferno ci sono anime dannate a cui nemmeno il Sommo Poeta sembra aver dato voce, abitano il «cerchio degli invisibili», scontano la loro (ennesima) pena nel «girone dei bestemmiatori», appartengono alla classe operaia morta sul lavoro e relegata nell’oblio narrativo passato e attuale, in cerca di giustizia nel futuro. A raccontare le loro storie, senza allori e fronzoli di sorta, ci pensa Alberto Prunetti con il suo ultimo libro Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia, pubblicato dai tipi di Robinson (Laterza, pp. 120, euro 15). Lo fa riprendendo il fil rouge delle precedenti opere – Amianto (Alegre 2014) e 108 metri (Laterza 2018) – e chiudendo il cerchio della sua trilogia working class.

IL PROTAGONISTA – collettivo, perché la sua parabola è la medesima di un’intera classe sociale – è ancora una volta Renato, padre di Alberto e saldatore tubista ucciso dalle fibre d’amianto inalate in fabbrica. Ma il piglio con cui calca la scena è tutt’altro che vittimistico: si aggira più agguerrito che mai nell’oltretomba infuocato, dà lezioni di saldatura a Dante Alighieri, rimprovera l’Onnipotente sull’inefficienza della struttura infernale, fomenta scioperi e complotta insieme a Steve McQueen – anch’egli morto per essere entrato a contatto con il micidiale asbesto, quando coibentava le navi mercantili e ben prima di diventare la celebre star dagli occhi di ghiaccio – un’evasione banditesca dai cantieri dell’aldilà, «via, via! A rivedé le stelle, maremmamaiala!».

SE IN «AMIANTO» la chiave della narrazione era un ibrido tra auto-biografia, narrarchivio e dimensione d’inchiesta, e in 108 metri era un montaggio punk e piratesco delle peripezie vissute da Prunetti nell’universo lumpen d’oltremanica, adesso la voce narrante dell’autore incontra Renato attraverso un’immaginifica discesa negli inferi, dalla quale riaffiora al presente reale per ricostruire alla piccola figlia Elettra – «il tuo nome mi ricordava gli elettrodi dei saldatori» – le origini della sua famiglia – «i vecchi dei tuoi vecchi venivano dalle Colline Metallifere» – e la toponomastica di un’irriducibile Maremma proletaria: dal cuore geotermico e silvestre della Toscana – tutt’intorno al borgo di Micciano, terre di carbonai, boscaioli e contadini – al villaggio industriale della Solvay, passando per l’Ilva di Follonica e l’altoforno di Piombino, veri e propri far west popolati dai metal cowboy d’Italia. La cifra stilistica rimane nel solco dell’opera di Prunetti, un linguaggio schietto e vernacolare, una prosa tagliente che si nutre del registro comico quando gli aneddoti scorrono a fiumi come il vino nei circoli del dopo-lavoro, e di quello tragico nel racconto delle ingiustizie subite, nella «storia della fibra grigia» dell’Eternit e delle sue vittime che ancora gridano vendetta.

LA FAUNA DI PERSONAGGI – e relativi ferri del mestiere – è di nuovo varia e sfaccettata, rocambolesca e leggendaria. Così, tra le tante figure, ci si può imbattere nel «reverendo gobbo», un prete a dir poco eterodosso, fedifrago in canonica ma fedelissimo alla causa calcistica – «via, bimbi, vediamo se sapete il catechismo, principiate coi nomi dei profeti: Zoff-Gentile-Cabrini»; in Francesca, moglie di Renato e donna working class, schiacciata – al pari di tante altre nella sua condizione – dal peso dell’economia domestica, un fardello immane e ammantato dall’ignobile propaganda patriarcale che lo ha sempre dipinto come meno duro rispetto ai lavori riconosciuti: «la donna casalinga di classe operaia non ha mai un attimo di riposo. In fabbrica lavorano otto ore al giorno. Lei ne lavora quindici senza salario. E fa tanti lavori assieme: la bambinaia, la cuoca, la lavandaia, la stiratrice, la sarta, l’infermiera, la maestra, la pedagogista»; in Louis Deruisseau, «detto Luigi, il “moro” perché figlio di schiavi africani», il giacobino nero approdato in Alta Maremma – nei cantieri edilizi della Marina di Piombino – da Haiti e dopo diverse scorribande in tutto il mondo, alternando le vesti di muratore trasfertista a quelle di prigioniero, esule e fuggiasco ribelle. Il patto con i lettori è rinsaldato con l’acciaio, perché Nel girone dei bestemmiatori si resta incollati alle pagine; quello con gli oppressi anche, e infatti il volume è dedicato «alle lavoratrici e ai lavoratori obbligati nei giorni della pandemia da coronavirus a produrre per i profitti del padronato». E l’eco delle storie passate rimbomba nei torti del presente, nella scellerata sovrapproduzione di una società al collasso tenuta a galla grazie ai disumani sforzi degli «invisibili», ammorbata da un’etica lavorista che pontifica sulla pelle – e col culo – degli sfruttati.
Eppure c’è un’armonica che risuona nella filigrana del testo, è quella di Charles Bronson in C’era una volta il west, le cui note annunciano che il giorno del giudizio verrà. E stavolta a pagare il conto saranno i padroni.