«Mombasa, perdonerai le mie intrusioni? In molti provano a sfuggirti. Se provando a renderti onore ti ho disonorata, perdonami. Sei una città di cantanti da matrimonio, astuti mercanti, mkokoteni trainati, grandi matriarche, vecchi dandy, pescatori scaltri e corvi attaccabrighe – ma soprattutto, sei una città di cantastorie. Sei molto più di quanto le mie semplici parole possano sperare di evocare. Sono soltanto una cantastorie in una città di abili raccontatori Ai parenti del mare, ai miei compaesani, ai miei vicini, alla gente di questo posto, tanto per i vostri kigelegele quanto per i vostri kelele, grazie».

Con questa dichiarazione d’amore alla sua città e alle sue genti posta tra i ringraziamenti, l’esordiente Khadija Abdalla Bajaber, laureata in giornalismo, dichiara le sue fonti e i suoi maestri in calce all’epica narrazione per terra e per mare di Dimora di ruggine (66th and2nd,traduzione di Alessandra Castellazzi, pp. 314, euro 18), tratta dal manoscritto con cui ha vinto la prima edizione del Graywolf Press Africa Prize.

UN TESTO TRA ROMANZO di formazione e d’avventura (impossibile leggendolo non pensare a Moby Dick ma anche a Sulla riva del mare del Nobel Abdulrazak Gurnah), lo scrittore nigeriano Igoni Barrett l’ha definito «l’inebriante viaggio nella mente di un’autrice capace di fare accadere il fantastico letteralmente davanti agli occhi dei lettori».

In una assolata Mombasa di spiagge e mercati, sulla costa meridionale del Kenya, la giovane Aisha, guardiana di storie e testimone di leggende, vive con la nonna e il padre, pescatore di origini Hadrami, tra una moltitudine di bizzarre creature e animali parlanti e impiccioni, sognando per sé un destino molto diverso da quello del matrimonio che la sua famiglia vorrebbe imporle, ma che lei rifiuta con tutte le forze (tingendo così il testo con un piglio femminista). L’occasione di mettersi in mare le viene offerta dalla scomparsa del padre, che Aisha va a ricercare a bordo di un’imbarcazione incantata fatta di ossa e scortata da Hamza, gatto parlante erudito che viene dalla «Dimora di Ruggine», luogo fiabesco e irraggiungibile, mai avvistato dai naviganti.

NEGLI ABISSI, tra navi affondate e morti annegati, i due temerari incontrano mostri marini e branchi di squali, scontrandosi in una epica lotta con il loro sovrano, Baba wa Papa, il «Re degli affondati», che prende per sé vascelli da guerra, lusso e bellezza, oro, gioielli e relitti: «Ribolliva di squali, centinaia, migliaia, che vorticavano in una rotta frenesia: danzatori dalle teste possedute dagli spiriti ma’rouhani. Più squali che acqua.

Luminosi, come se qualcuno avesse fracassato la luna per poi abbandonarla sanguinante nell’acqua, gli squali si avventavano in quella consistenza viscosa per banchettare. Spettri color cadavere dagli sguardi folli e tondi. Si ricongiungevano per inghirlandare di morte il loro re, il loro custode, il loro uccisore. Una cerimonia ferale per il loro re affamato». Una storia che conferma come la tendenza al fiabesco sia molto in voga tra le nuove generazioni di autori africani.