Situate in uno spazio indefinito, le vicende dell’esordio romanzesco di Karen Köhler, L’isola di altrove (traduzione di Margherita Belardetti, Guanda, pp. 468, € 20,00) ruotano attorno all’emancipazione di una trovatella sedicenne che, in un tempo risalente a circa trent’anni fa, era cresciuta in un villaggio arrampicato su una delle cinque montagne dela immaginaria «Bella Isola».

Nel villaggio regna una società arretrata in cui alle donne è vietato leggere, parlare, esprimersi: il loro dovere, in questo mondo distopico, è obbedire agli uomini, e innanzitutto ai tredici del Consiglio degli Anziani, seguendo le imposizioni della Corabbia, il libro sacro della religione fanaticamente praticata sull’isola.

A questo contesto repressivo si oppone, nel romanzo, il luogo di «Altrove», dal quale ogni tanto arriva un mercante con la sua barca, carica di oggetti del tutto comuni, oggetti della vita quotidiana («un televisore, un ventilatore, un tostapane o un telefono») ma che non può vendere prima di averne avuto il permesso dagli anziani. Quelli del mercante sono prevalentemente strumenti di comunicazione, che potrebbero diffondere notizie pericolose e dal cui uso è bene, perciò, preservare gli abitanti dell’isola. Solo elemento di contatto con «Altrove», cioè con la realtà cui appartiene il lettore, il mercante, inoltre, è anche l’unico a dare alla giovane protagonista del romanzo notizie dal mondo esterno.

La complessità della macchina narrativa, le oltre 450 pagine divise in 128 capitoletti, poeticamente denominati «strofe» e accompagnati da titoletti che aiutano a orientarsi nelle vicende narrate, si articola in una lingua limpida e avvincente, che riesce a trascinare il lettore verso quei problemi relativi alla libertà di pensiero e di espressione che vigono in una società governata da un’oligarchia politica e religiosa, refrattaria a qualsiasi novità proveniente dall’esterno.

Nella dialettica fra interno ed esterno, ovvero fra «Altrove» e «Bella Isola», si consuma la progressiva ribellione della ragazza alle regole della società del villaggio: la trovatella viene cresciuta dal Priore del tempio, il quale la protegge dagli abitanti del villaggio che, in quanto estranea, non le hanno concesso altro nome se non quello di «Trovatella». Considerata anzi una strega, la bastonano fino a menomarle una gamba. Ma al villaggio non sono estranee alcune figure positive, che sebbene incapaci di reagire ai soprusi, ascoltano la trovatella e cercano di accompagnare il suo progressivo affrancarsi, appoggiando la sua battaglia contro quella dittatura che è, in fondo, l’espressione del potere dei pochi, preservandola dalla follia religiosa e dalle discriminazioni vigenti.

Una di queste figure è Mariah, l’altra Yael, del quale la ragazza si innamora, mentre il romanzo invita implicitamente il lettore a elaborare antidoti al regime della «Bella Isola», cui molte società contemporanee rischiano per qualche verso di somigliare.