Intorno alla discussione sui «populismi», sul manifesto sono state proposte categorie interpretative meno banali di quelle avanzate da chi identifica così ogni forma di opposizione radicale all’ordine stabilito. Nuovi spunti di riflessione vengono dalla lettura di La democrazia dei populisti tra Europa e Americhe, a cura di Marco Bresciani e Guri Schwarz (Viella, pp. 184, euro 22). Si tratta di una raccolta che spazia dalla storiografia alle scienze politiche con una prospettiva internazionale e uno sguardo cronologico focalizzato sul post-’89. Ne abbiamo parlato con Marco Bresciani, docente di storia contemporanea all’Università di Firenze.

Cos’è il «nazional-populismo»? Da dove viene e quali le sue caratteristiche rispetto ai contesti che analizzate?
Le definizioni correnti del fenomeno risultano troppo rigide e astratte. Il populismo non è certo un fenomeno recente, e i casi degli Stati Uniti, del Brasile o dell’Argentina ne rivelano la lunga durata tra Otto e Novecento. Però la fine della contrapposizione tra Est e Ovest, le transizioni ai regimi post-comunisti, l’accelerazione dell’integrazione globale (ed europea) hanno determinato le condizioni per un fenomeno relativamente nuovo, capace di mobilitare tutti coloro che si sentono frustrati o esclusi dalla globalizzazione stessa. Per questo abbiamo ripreso dal politologo francese Pierre-André Taguieff la più flessibile categoria di «nazional-populismo» che descrive le ibridazioni tra nazionalismo e populismo dagli anni ’80 in poi. Come spiega Marco Almagisti, l’Italia dai primi anni ’90 è stata un laboratorio precoce di varie forme di «nazional-populismo» che hanno corroso le basi della Repubblica dei partiti e alterato le precedenti forme della politica parlamentare.

Nell’introduzione proponete un interessante ragionamento sulla crisi dell’immaginario europeo, plasmato dalla Seconda guerra mondiale, alla luce delle trasformazioni derivate dalla fine dei Trenta gloriosi e poi della Guerra fredda.
A partire dagli anni ’80, la trasformazione dei nessi tra stato ed economia, con la crisi del Welfare state, si è sviluppata in un rapporto stretto con la costruzione di una memoria pubblica fondata sulla Shoah. Si è così creato un oggettivo intreccio tra la prospettiva neoliberista e una visione storica concentrata sulla violenza del 900 e sulle sue vittime. Dal crac del 2008 e dai suoi contraccolpi, l’ascesa di tipi inediti di radicalismo politico è stata letta enfatizzando l’analogia con gli anni ’30 e i «fascismi». Un corto circuito tra passato e presente in cui è più difficile decifrare i fenomeni «nazional-populisti».

Perché i «nazional-populismi» vanno letti nelle dinamiche delle società democratiche e non come nuovi «fascismi»?
In generale, le analogie sono funzionali alla mobilitazione dell’allarme politico, ma gli storici dovrebbero cercare di fornire strumenti critici per sterilizzarle e comprenderle. I «fascismi» non hanno costituito storicamente l’unico rischio per la tenuta della democrazia liberale. Anzi, in un contesto dominato dal linguaggio della democrazia, le minacce di derive anti-liberali e anti-parlamentari derivano più dal logoramento interno che da un eventuale assalto esterno. A differenza dei «fascismi», come spiegano Nadia Urbinati e Federico Finchelstein, sul piano generale, e Fabio Gentile, sul Brasile, i «nazional-populismi» nascono e prosperano nella crisi di legittimità della rappresentanza e dalle disfunzioni delle istituzioni democratiche. Ma si propongono di manipolare il senso stesso della democrazia, senza perciò rovesciarla. Questa è «la democrazia dei populisti», per riprendere il titolo del nostro volume.

In questo, che tipo di snodo ha rappresentato la presidenza Trump?
Come illustra Arnaldo Testi, Trump si innesta su una varia tradizione populista americana, estremizzandone i moduli nazionalisti aggressivi e le retoriche incendiarie della marcia del «popolo» su Washington. Nonostante la sommossa del 6 gennaio 2021, il sistema costituzionale statunitense sembra però aver retto una sfida così destabilizzante.

Nel suo saggio, Philipp Ther riflette sulla connessione tra populismo e neoliberismo. In che modo la crisi del 2008, e quella del Covid, hanno impattato su questi due paradigmi?
Tra populismo e neoliberismo c’è un rapporto stretto, ma ambivalente, che risulta evidente nel caso di Orbán, analizzato da Stefano Bottoni. Le reazioni «nazional-populiste» ai processi di privatizzazione e globalizzazione e alle loro drammatiche ricadute sociali, che creano nuove chiusure ed esclusioni, non sono del tutto separabili da inedite ibridazioni con le politiche neoliberiste. La pandemia ha aperto scenari incerti, e di questo senso di insicurezza potrebbero beneficiare le spinte «nazional-populiste». Ma la crisi del discorso neoliberista e il nuovo ruolo dello stato nell’emergenza sanitaria potrebbero anche inaugurare tendenze ben diverse.