I dieci anni passati dalla sua morte, avvenuta il 30 giugno del 2009, non hanno affatto sminuito la sua fama, l’importanza che il suo tanztheater mantiene sulle nuove generazioni di artisti, e tanto meno il suo ruolo di icona non solo della danza, ma di tutte le arti. E perfino di atteggiamenti , comportamenti , e capacità di reazione e «interpretazione» da parte del pubblico. Perché lei, Pina Bausch, ha cambiato davvero le carte (e la carne) in tavola: le tavole del palcoscenico naturalmente, ma non solo quelle.
Di lei si sa molto: nata nel 1940 a Solingen, la capitale delle lame più acuminate, la curiosità interrogativa per la folla di persone che affollavano il pubblico esercizio dei genitori, gli studi di danza, il maestro del neoespressionismo Kurt Jooss, la trasferta in America per avvicinare tecniche nuove che la portò perfino a Spoleto come danzatrice di fila nella compagnia di Paul Taylor. Poi l’incarico alla scuola di danza di Essen e l’offerta della direzione della compagnia di Wuppertal. Una «carriera» come tante, ma culminata e perpetuata poi in una sorta di laico ed interiore «culto», che neanche la sua scomparsa, dieci anni fa, accenna a scalfire. Una fama e un pensiero che non erano fatti di parole, pochissime del resto anche nei suoi spettacoli, all’apparenza molto quotidiane ma spesso fulminanti nella memoria. La sua sostanza resta costituita della «materia dei sogni» certo, ma soprattutto dei corpi. Corpi che parlano, e lottano e amano, anche quando non paiono danzare.

E PROPRIO nel loro non-detto sta la comunicazione deflagrante che Pina con grazia ci ha porto.
Il suo teatrodanza riesce a comunicare quello che il teatro di parola, da solo, non poteva e non riusciva più a esprimere, se non in pochi casi eccezionali. E invece, sul palcoscenico Bausch, è tornato a parlare, commuovere, ferire anche, sconvolgere, e penetrare nel profondo della sensibilità di ogni spettatore. È riuscito insomma a comunicare il non-detto, l’indicibile, che ogni essere umano si porta dentro barricandosi dal dover condividere desideri e frustrazioni, fantasie e delusioni. Tutta quella sfera di intima privatezza che sta in equilibrio tra il sublime e il torbido, che in società è buona usanza resti «inconfessata». Con l’eleganza fascinosa di quei corpi in movimento e in continua tensione tra abiti da sera e musiche suadenti, Bausch ha lambito proprio quelle zone esaltanti e felici, ma anche opache o oscure, dentro ognuno di noi.

PRIMA lavorando sull’opera (barocca soprattutto, ma anche Brecht e Weill) costruendo memorabili tanz oper dove i cantanti sdoppiavano i loro personaggi nei corpi dei danzatori; ma arrivando gradualmente a costruire lei stessa una drammaturgia musicale che si faceva contenuto, prima con le «canzonette»di tutta Europa (da quelle berlinesi anni ’30 agli hit napoletani), poi con flussi musicali sempre più intensi e avvolgenti legati alla cultura popolare delle città che aveva intrapreso a raccontare. Lavorando sempre con una equipe stabile e raccolta: Il suo compagno Ralf Borzik è stato autore di scene ed ambienti, finché una malattia non la lasciò sola; da quel momento, quel 1980 che rimane un suo titolo fondamentale, lavorando per sempre con il fido Peter Pabst, mentre Marion Cito, autrice di quegli abiti che rubano gli occhi, era prima lei stessa una danzatrice della compagnia. Un’impresa dunque di tipo quasi familiare nonostante le acclamazioni planetarie, che apparentemente attingeva al quotidiano di situazioni e discorsi, per proiettarsi attraverso quel teatro/danza negli abissi più intimi della vita di ogni spettatore. Dando visibilità a problemi e conflitti brucianti, come quello tra maschile e femminile, sempre in competizione e in continua reciproca sconfitta; oppure al rapporto tra singolo e massa, di cui resta la testimonianza formidabile della Sagra della Primavera strawinskiana, tanto forte quanto lontana da routine ballettistica, immortalata e pulsata in 3d da Wim Wenders.

RESTA UN MISTERO, per critici ed esegeti, indagare su un possibile «metodo Bausch». Lei, sgranando i suoi occhioni, ha sempre dissimulato, negando l’esistenza di una qualche formula schematica. Però, a posteriori, forse qualche elemento i suoi spettacoli ce lo possono far intravedere. Con grande beneficio d’inventario, se pensiamo (lei stessa se ne stupiva sorridendo) che proprio 1980, nato come rito collettivo in morte di Borzik, fu accolto trionfalmente dal pubblico, come «festa» che inneggiasse a qualche lieto evento. Certo, l’aver condiviso con lei una cena in una tradizionale trattoria romana (era fine anni 90, giugno, dopo le repliche di una sua storica tanz oper) rende testimonianza del suo netto rifiuto rispetto all’oste premuroso che voleva far trasferire la tavolata all’interno a causa dell’improvviso temporale estivo. Lei si rifiutò ostinatamente, anzi sorridente e compunta alzò il calice verso il fiotto d’acqua violento proveniente da un buco nell’ombrellone, spiegando beata e soave all’uomo esterrefatto: «Raccolgo l’acqua dal cielo, come nell’Eden». Pochi anni dopo l’immagine delle donne col calice al cielo chiudeva l’acquatico, struggentissimo Vollmond. E subito dopo era ancora l’immagine col calice al cielo ad aprire quello che sarebbe stato il penultimo dei suoi titoli, Sweet mambo. Lei, quell’Eden tutto interiore, ce l’ha fatto spesso sognare, e forse anche toccare, col cuore.