Un automobilista di buona cultura e fervida immaginazione che si fosse trovato a percorrere la via Pontina il 18 gennaio scorso non avrebbe incontrato nessun componente della famiglia Joad a fare l’autostop, ma chiudendo per un attimo gli occhi e giocando con la fantasia si sarebbe potuto sentire alla guida di un «rottame con le ruote» steinbeckiano sulla Route 66 degli anni ‘30. Oggi, nell’Italia del 2013 che non riesce a produrre un governo credibile né un’idea di futuro, i Tom Joad della Pomezia valley non sono agricoltori espropriati delle loro abitazioni e terreni dalle banche, atterrati dalla siccità e dalle «trattrici» che sostituiscono il lavoro di venticinque persone come in Furore di John Steinbeck, bensì una working class privata della propria identità da amministratori delegati profumatamente pagati per far quadrare gli utili delle imprese. Formati in master e Phd nelle migliori business school dell’élite globale, pronti a sacrificare risorse umane in nome di un fine più alto: la sopravvivenza del capitale sul lavoro.

Riaprendo gli occhi, l’immaginifico automobilista-letterato avrebbe incrociato gli sguardi dei lavoratori della Sigma Tau. Gli avrebbero raccontato, quegli sguardi e soprattutto le parole dei Tom Joad della Pomezia valley, con quale tono asettico e privo di umanità l’azienda – un colosso della farmaceutica italiana – ha spiegato loro che non c’è alternativa alla messa in pausa forzata: ha perso 35 milioni dal 2006 al 2010 e, se vuole mantenere in vita lo stabilimento, è costretta a chiudere due centri di ricerca – la Tecnogen spa a Piana di Monte Verna nel casertano, 63 lavoratori, e la Prassis di Settimo Milanese, altri 30 impiegati – e a dimezzare la rete commerciale, visto che il decreto Balduzzi, che favorisce la vendita dei farmaci generici, ha provocato l’effetto collaterale di rendere inutile e superato il ruolo degli informatori farmaceutici, quei signori in giacca, cravatta, ventiquattrore e in ottima salute nei quali ciascuno di noi si è imbattuto, almeno una volta nella vita, in una sala d’attesa di uno studio medico.

Tradotto in cifre, la Sigma Tau ha tagliato la rete commerciale da 500 a 214 venditori. Di 1.400 dipendenti, 569 sono stati messi in cassa integrazione: più di un terzo. I lavoratori non credono alle parole dell’azienda, denunciano spostamenti di utili e attivo a Madeira e un cambiamento di strategia a partire dalla morte del capofamiglia Claudio Cavazza, avvenuta un anno fa. Per questo il 18 gennaio hanno bloccato la Pontina, qualche giorno dopo sono andati agli allenamenti della Roma come un tempo si sarebbero recati a un santuario religioso per chiedere a capitan Totti di intercedere per loro e ancora oggi continuano a mantenere un presidio fisso davanti allo stabilimento. L’azienda replica minacciando querele perché Madeira non è una zona franca per gli evasori delle tasse e sostenendo che il buco da 35 milioni risale al periodo tra il 2006 e il 2010, quando padron Cavazza era vivo. Tecnicamente la risposta della Sigma Tau non fa una grinza. La fiscalità ridotta nell’isola portoghese al largo delle coste africane ha l’avallo di Bruxelles, com’è stato con Cipro: il capitalismo ha bisogno delle sue zone franche come un certo comunismo necessita delle “zone economiche speciali” per sperimentare l’ebbrezza del capitale.

È tutto qui, il passaggio da un “capitalismo familiare” all’italiana a un “dopo Cristo” che ancora non è chiaro dove andrà a parare. Passati dal Novecento degli Stati-nazione, con le loro dinamiche interne, i rapporti di potere, le appartenenze politiche e le grandi dinastie familiari, al nuovo millennio della finanza globalizzata in cui tutto è virtuale – i capitali, persino gli amministratori delegati – i Tom Joad della Pontina, on the road in un deserto senza marciapiedi come in un romanzo di Cormac McCarthy, urlano i loro slogan al vento senza nessuno che li ascolti, fatta eccezione per il nostro automobilista sognatore che ha però ormai esaurito ogni riferimento letterario. Presidiano un bidone ormai svuotato.

Il caso Sigma Tau non è isolato e, se non lo si osserva nel suo contesto, si rischia di cogliere solo un frammento di verità. Un tempo il polo farmaceutico di Pomezia era secondo solo a quello lombardo. Grazie ai finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, qui sono arrivate multinazionali da tutto il mondo. Ma oggi, finiti i soldi della Cassa, ridotti i rimborsi delle assicurazioni mediche private e spremute fino all’ultima goccia di latte le vacche grasse del Servizio sanitario nazionale, della decina di grandi marchi del farmaco sono rimasti solo gli svizzeri della Pfizer e gli angloamericani della Abbott. Gli altri? Scappati via. Né va meglio per i più piccoli. L’ultima cassa integrazione, per 61 lavoratori, è stata concessa qualche settimana fa dalla Regione Lazio alla Scm, società che un paio d’anni fa aveva rilevato la Gambro, specializzata in prodotti biomedicali. Sono gli effetti collaterali, come abbiamo visto alla Sigma Tau, della legge del governo Monti che impone l’obbligo di prescrizione del principio attivo dei farmaci – che pure ha avuto il merito di aver eliminato ogni connivenza tra medici e case farmaceutiche – nonché del giro di vite alla sanità imposto dal governo alla Regione a causa del debito eccessivo contratto nelle stagioni d’oro delle clientele e del «privato è bello».
Una stretta draconiana che ha portato a rivedere alcuni accreditamenti privati e alla chiusura di ospedali pubblici oltre al taglio di posti letto e alla riduzione delle prestazioni. Il primo a cadere è stato il San Giacomo, nel pieno centro di Roma, a due passi da piazza di Spagna. Ha vissuto periodi più felici, per via delle restrizioni agli accreditamenti regionali ai privati e di alcune inchieste giudiziarie, pure l’impero della famiglia Angelucci, che nei momenti di massimo splendore poteva vantare, oltre alla proprietà dei quotidiani Libero e Il Riformista, ben 25 cliniche private convenzionate, tra le quali il San Raffaele di Velletri con i suoi 259 dipendenti. Oggi l’ex fiore all’occhiello della sanità privata laziale – il “modello lombardo” esportato a sud – è «momentaneamente non operativo», come elegantemente fa sapere dal suo sito internet, tuttora attivo come se l’ospedale funzionasse regolarmente e fosse possibile prenotare una stanza per l’indomani mattina. Un impero il cui simbolo è la statua di papa Giovanni Paolo II, innalzata dalla omonima Fondazione davanti alla Stazione Termini di Roma per accogliere turisti e viandanti con le braccia allargate come un tempo le statue di Stalin in Unione Sovietica o le gigantografie di Padre Pio in qualche piazza del Sud Italia. Il proverbiale cinismo dei romani non avrebbe potuto partorire un nomignolo più adatto di quello che le è stato affibbiato: «er pipistrello».

Se questo è lo stato dell’arte, pare difficile che la situazione possa migliorare, visto che il piano di rientro dal debito firmato dal Commissario per la Sanità Enrico Bondi – ex risanatore della Parmalat e deus ex machina del premier Monti, che lo ha messo addirittura a valutare la limpidità dei candidati della sua Scelta Civica alle recenti elezioni politiche – prevede una sforbiciata di un altro migliaio di posti letto negli ospedali pubblici per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014. È l’effetto più visibile di leggi vidimate dagli yes-men del Parlamento senza un vero dibattito pubblico, ma semplicemente approvando decisioni prese sulla loro testa: in primis il federalismo fiscale in salsa leghista – dietro il dogma pseudo-secessionista «le tasse sono nostre e ce le gestiamo noi» – e infine il Fiscal Compact europeo, inserito nella Costituzione dalla strana maggioranza Pd-Pdl che teneva in piedi il governo Monti, sia pur con diversi malpancisti – astenuti o usciti dall’aula – e il voto contrario della Lega.

Basterebbe trascorrere una mattinata all’Istituto Dermopatico dell’Immacolata per comprendere quanta pressione debba sopportare la sanità della capitale e provare ad aggiungere una spiegazione meno psicanalitica alle dimissioni di Benedetto XVI dal soglio pontificio. In attesa di una visita ambulatoriale, ci si mette in fila dall’alba per non rischiare di rimanere in coda fino al tramonto. Ogni giorno si ripete questa via crucis di persone – tantissimi gli anziani – che spesso arrivano da fuori Roma perché l’Idi fornisce cure d’avanguardia per le malattie della pelle e si prende cura di tutti, a prescindere dal conto in banca e, cosa che fa sempre presa sul retroterra cattolico del nostro Paese, con la benedizione di Madre Chiesa. Qui puoi trovare gente che si è sobbarcata anche centinaia di chilometri per una visita medica gratuita, in genere dal sud Italia da dove il “turismo della salute” continua a essere alimentato da liste d’attesa infinite e inefficienze delle strutture sanitarie. Chi può permetterselo prenota una visita a pagamento – se si vuole incontrare un primario si paga un sovrapprezzo – ma la gran parte dei pazienti si accalcano nelle code per gli ambulatori, in virtù della missione originaria della congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione fondata nel 1858 da padre Monti: fornire assistenza spirituale e materiale ai meno facoltosi.

Leggendo retrospettivamente le professioni di povertà e sobrietà del papa argentino Francesco I, si intuisce come possano essere tese ad arginare il disastro finanziario – ed etico – della Santa Sede. La bufera sulla sanità vaticana era in corso da tempo. Dopo il crack del San Raffaele di Milano – la sentenza per la bancarotta è prevista a giorni – nel luglio scorso la Guardia di Finanza si era presentata negli uffici dell’Idi a via della Conciliazione, proprio di fronte al colonnato di San Pietro, ma si era vista opporre l’extraterritorialità e c’era voluta l’intera mattina per ottenere il lasciapassare pontificio a entrare e sequestrare documenti e bilanci. Poi, però, il Vaticano aveva cambiato atteggiamento, disposto un’inchiesta interna e acconsentito a collaborare con quella italiana. Come ultimo atto del suo mandato Joseph Ratzinger, il 15 febbraio scorso, prima di lasciare la cattedra di Pietro e ritirarsi a Castelgandolfo in attesa della fumata bianca al Conclave, aveva nominato il cardinale Giuseppe Versaldi a «guidare e indirizzare le strutture religiose». Vale a dire, a cercare di mettere ordine nel default temporale di Santa Romana Chiesa. A occuparsi del crack spirituale ci avrebbe pensato invece il suo successore, destinato a gestire una fase di decrescita infelice e a organizzare la difficile transizione alla sobrietà post-consumista.

Tra le prime grane che il cardinale-commissario si è trovato ad affrontare c’è quella dell’Idi, appunto. Il polo d’eccellenza della dermatologia italiana versa in uno stato comatoso: quasi seicento milioni di debiti, appena tre acconti di stipendio pagati negli ultimi nove mesi ai 1.600 dipendenti, una sola ambulanza – in comproprietà con l’ospedale gemello San Carlo di Nancy – lo stop alla radiologia, un piano industriale che prevede il taglio di 120 posti letto e 360 esuberi tra amministrativi e infermieri. Nel bel mezzo della tempesta economica, secondo i magistrati che pochi giorni fa hanno deciso l’arresto dell’ex consigliere delegato tra il 2006 e il 2011, padre Francesco Decaminada, e di un paio di imprenditori legati all’istituto, dalle casse dell’ospedale sarebbero spariti 14 milioni di euro, che sarebbero serviti, tra le altre cose, ad acquistare un casale di quattro piani e tre ettari di terreno nella campagna toscana di Magliano, in provincia di Grosseto, a un passo dal mare. «Una casa di preghiera», l’ha giustificata il sacerdote-manager che, sentendosi incastrato, aveva tentato un’ultima mossa disperata: donarla alla congregazione.

I magistrati romani hanno usato per l’inchiesta sull’Idi il motto del fondatore dell’ordine dei gesuiti Sant’Ignazio di Loyola: «todo modo para buscar la voluntad divina», «in ogni modo per realizzare la volontà divina». Un motto che aveva dato il titolo anche a un celebre romanzo di Leonardo Sciascia – in seguito trasposto cinematograficamente da Elio Petri: Todo modo. È la storia di un gruppo di uomini di potere democristiani – politici, industriali, banchieri, finanzieri – che si riuniscono in un eremo per degli esercizi spirituali. Ma, invece che rinnovare se stessi, finiscono coinvolti in una catena di omicidi: un’allusione all’insanabile corruzione demo-cattolica e all’impossibilità del compromesso storico con il Pci. I riferimenti storici e letterari dell’inchiesta “Todo modo” non appaiono casuali, così come l’allusione a padre Bergoglio, un ex gesuita chiamato a dare un “nuovo corso” alla chiesa cattolica nella temperie di una crisi che rischia di precipitare sempre più la società nel nichilismo, come dimostra il triplice suicidio di qualche giorno fa a Civitanova Marche. E stavolta non si vede all’orizzonte un Roosevelt in grado di invertire la rotta.