Patricio Guzmán, ottantenne documentarista cileno cui dobbiamo la memorabile trilogia La Batalla de Chile e il notevole La memoria del agua, in una recente intervista al País ha fatto presente che «ogni creatore ha un tema ossessivo, che lo riempie. Per alcuni è una città o una persona, per me è la memoria di questo paese». La stessa cosa potrebbe dire Nona Fernández, attrice, commediografa e soprattutto una delle migliori scrittrici latinoamericane di oggi, assai più giovane di Guzmán (è nata a Santiago del Cile nel 1971) ma come lui in lotta con la desmemoria, la terribile smemoratezza che in questi giorni ha portato un pinochetista di ritorno come Antonio Kast al ballottaggio per la presidenza della Repubblica.
La scrittura di Fernández, sia destinata al teatro o si dispieghi in romanzi o in novelle, mette sempre in primo piano il ruolo di una memoria che per anni si è cercato di sterilizzare con l’insistente invito a voltare pagina e ignorare le cicatrici, accompagnato dal costante negazionismo della destra e dall’appropriazione istituzionale del lutto collettivo, travasato in stanche cerimonie ufficiali.

PER AVVENTURARSI in quella voragine tenebrosa che sono gli anni della dittatura (esplorata, per fortuna, da scrittori come Pedro Lemebel e Diamela Eltit, solo per citarne due fra i più noti del nostro paese, come da molti altri, spesso appartenenti alla «generazione dei figli») Fernández parte da esperienze personali, si serve di un’immaginazione vivacissima che a volte assume tinte surreali o gotiche, come in Mapocho, e fa ampio riferimento ad elementi pop legati a cinema, televisione, fumetti, musica.
Ritroviamo questo procedimento anche in Voyager, edito in Cile nel 2019, approdato in Italia nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto e appena uscito presso gran vía (pp. 138, euro 14): un testo che non appartiene alla narrativa pura e difficilmente si può definire un saggio o una cronaca, ma si presenta come ibrido e indefinibile (sempre che ci sia bisogno di applicargli una qualsiasi etichetta), attingendo senza esitazioni a tutti e tre i generi. Una proposta, insomma, che ignora volutamente limiti formali e temporali per affrontare il tema della memoria da molteplici angolazioni. Il titolo rimanda, non a caso, alle sonde spaziali lanciate negli anni ’70 dalla Nasa per esplorare il sistema solare (si stima che saranno attive almeno fino al 2025), equipaggiate in modo da «registrare» brandelli di universo e portare un breve messaggio fatto di simboli e cifre a possibili presenze aliene.

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A BORDO di un Voyager immateriale, infatti, Fernández viaggia in un cosmo dove trovano spazio la dimensione intima e quotidiana, il mito greco, l’astronomia, l’astrologia, la scienza medica, sogni e incubi, la storia cilena recente, foto di famiglia, l’elenco delle innumerevoli, assurde dichiarazioni di una stupidità decisa a «trattenerci nell’orizzonte di eventi del grande buco nero in cui siamo sul punto di naufragare» ( per esempio la terra che è piatta, il cancro «che si cura col veleno di una rana», l’Olocausto che non è mai avvenuto, le donne «che tramano piani per mortificare gli uomini», il riscaldamento globale che non esiste). E poi il discorso del liceale Dante (figlio dell’autrice), invitato a commemorare il Plebiscito contro la dittatura con un discorso prontamente censurato, perché non offre sponde agli intolleranti dai quali troppo si è tollerato, i ricordi d’infanzia e quelli di una nazione intera, il video su cui scorrono le puntate in bianco e nero di Cosmo, serie divulgativa dell’astrofisico americano Carl Sagan (uno dei padri delle Voyager) capace di offrire a una «bambina del Sud» la possibilità di intraprendere un viaggio di conoscenza «verso un’altra realtà possibile, lontano da sparatorie e coprifuochi».

FERNÁNDEZ incatena liberamente, con grande naturalezza e con sottile rigore, associazioni e digressioni pronte a formare una costruzione solida e perfetta la cui prima pietra è rappresentata dall’incipit, in cui l’anziana madre di Nona si sottopone a un esame neurologico per scoprire la causa di improvvisi svenimenti accompagnati da perdita di memoria, e viene invitata dal medico a ricordare qualcosa di piacevole; mentre lei ripensa alla nascita della sua bambina, la figlia vede apparire sul monitor una lampeggiante, luminosa costellazione di neuroni che la induce immediatamente ad accostare cosmo e cervello umano, l’infinito e l’infinitamente piccolo. Un collegamento dal quale nascerà una spirale di racconti, dati e riflessioni che, per mezzo di una scrittura come sempre incantevole, stabiliscono una continua tensione tra l’uomo e l’universo, tra l’immaginazione e la menzogna volontaria e involontaria, tra l’identità personale e la storia collettiva, in primo luogo quella non ufficiale, mentre «la luce del passato illumina il nostro presente» e la memoria – inclusa quella del corpo, così potente e così spesso inascoltata – definisce ciò che siamo e ci proietta verso il futuro.

NELLA RICCA, TURBINANTE galassia di immagini proposta da Voyager, spiccano quella di un matriarcato consapevole, ironico e solidale (Fernández, la madre che costruisce la propria vita fuori dalle regole patriarcali e senza appoggio maschile, la nonna che scaglia furiosa il grembiule contro il televisore quando compaiono Pinochet e il suo ideologo Jaime Guzmán), quasi un annuncio del battagliero femminismo futuro, e un’altra infinitamente preziosa: il deserto di Atacama, affollato di suggestioni, di silenzi parlanti, di presenze fantasmatiche come quelle dei ventisei prigionieri politici uccisi il diciannove ottobre del 1973 dalla Carovana della Morte, sepolti nella sabbia e poi esumati e forse gettati in mare perché nessuno potesse ritrovarli.
Una costellazione di corpi cui ne corrisponde un’altra, la Constelación de los caídos, che su proposta di Amnesty International avrebbe dovuto portare i nomi dei caduti, rinominando ventisei stelle visibili dal deserto, il miglior luogo al mondo per osservare il cielo. Nona Fernández è stata la «madrina» di una stella che, se il progetto fosse andato a buon fine, si sarebbe chiamata Mario Arguelles Toro come uno degli uccisi, un dirigente socialista di trentaquattro anni che si guadagnava la vita guidando un taxi, e la cui vedova si ostina a pretenderne le ossa: di lei, di loro, del giovane astronomo che scoppia a piangere mentre li commemora nel gelo notturno del deserto, Voyager ci racconta con asciutta ed efficace mancanza di retorica.
Non si può non ricordare, infine, che sebbene sia stato scritto nei mesi precedenti all’estallido – l’esplosione sociale dell’ottobre 2019 che ha imposto la necessità di una nuova Costituzione – il libro è apparso in Cile proprio in coincidenza con la rivolta, ed è difficile separarne la lettura dalle speranze e dall’indignazione espresse in un’ immensa protesta, al grido di «non era depressione, era capitalismo», contro quello che Fernández definisce «un neoliberismo abusante».
È davvero tempo, insomma, che il Cile riesca a staccarsi, come un autentico Voyager, dall’ancoraggio fin troppo solido e duraturo allo spazio della dittatura.